UN’ETICA DELLA SIMBIOSI

Accademia cinese delle Scienze Sociali, Pechino, 14 ottobre 1992

Ho il privilegio di parlare al cospetto dei membri dell’Accademia cinese di scienze sociali, istituzione di prestigio e degna di grande rispetto. Sono onorato di essere nominato professore onorario per la ricerca di questa accademia. La mia gratitudine è rivolta al presidente Hu Sheng, ai membri dell’Accademia e a tutti i distinti ospiti qui riuniti oggi.
Come ci ha ricordato il presidente Hu, la situazione mondiale sta diventando sempre più caotica con l’approssimarsi del XXI secolo. Il premier cinese Zhou Enlai predisse che il mondo sarebbe stato presto spettatore di grandi cambiamenti e abbiamo visto che le sue parole sono diventate realtà. Dal collasso del sistema della Guerra Fredda, provocata dalla rivalità tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la situazione globale ha subito dei cambiamenti così veloci che non possiamo permetterci di distogliere lo sguardo neanche per un istante. Si è comunque sviluppato in modo costante un nuovo interesse verso l’Asia Orientale – la Cina, il Giappone, la Corea del Nord e quella del Sud, Taiwan e Hong Kong. La ragione principale di tale crescente attenzione è il primato economico di questa regione. Per primo il Giappone e, di recente, quelle che vengono definite le NIE (le Nuove Economie Industrializzate) hanno mostrato una notevole crescita economica. Questo fatto e la grande vitalità della Cina assicurano che, per quante incertezze possano rimanere, l’Asia orientale sarà un centro di grande importanza nell’economia mondiale del XXI secolo.
Ma tutto ciò mette in luce qualcosa che va oltre lo specifico ambito scientifico. Vi è un enorme interesse per quegli aspetti della cultura che hanno contribuito o potrebbero fornire una spiegazione al processo storico che ha portato al successo dell’Asia orientale. Gli elementi culturali comuni a una determinata regione formano una «sfera culturale». In Giappone, in questi giorni, si incontrano spesso termini quali la «sfera della cultura confuciana» o la «sfera della cultura sino-ideografica», utilizzati nelle discussioni o sulla stampa. Gli analisti delle nazioni occidentali industrializzate sembrano particolarmente desiderosi di studiare questi elementi culturali. Penso che si possa affermare che l’esame dello sviluppo dell’Asia orientale stia passando dagli aspetti più evidenti a quelli più profondi e meno appariscenti.

IL NOI ANTEPOSTO ALL’IO

Come si può definire meglio la cultura e la spiritualità dell’Asia orientale, elementi profondi, cuore della sua civiltà? Non esiste, certo, una semplice risposta, ma se dovessi proporre quale sia la visione del mondo condivisa in tutta questa regione, sceglierei l’espressione «etica della simbiosi». Con questa intendo quel tipo di mentalità che privilegia l’armonia rispetto all’opposizione, l’unità alla divisione, il noi all’io. Di fatto, essa si esprime come l’idea per cui gli esseri umani dovrebbero vivere in armonia l’uno con l’altro e con la natura. Tramite un reciproco sostegno, l’intera comunità può fiorire. Questi ideali sono perseguiti in un ambiente caratterizzato da un clima relativamente temperato e da una particolare bellezza della natura.
Non si può negare che il Confucianesimo sia una delle principali fonti da cui ha origine l’«etica della simbiosi». Ma si deve fare una distinzione tra principi confuciani tradizionali, quali le «tre relazioni» e le «cinque pratiche»,(1) e la grande enfasi che il Confucianesimo pone sul gruppo rispetto all’individuo. I primi sono insegnamenti più specifici, intesi a regolare le relazioni e il comportamento, e tendono a sanzionare lo statu quo delle gerarchie sociali. Essi contribuiscono a rendere stagnante e rigida la società.
Fu naturale che il Movimento del 4 maggio attaccasse con veemenza l’ideologia feudale. Questi effetti negativi del Confucianesimo sono stati determinati dalla sua adozione come ideologia ufficiale, il che lo ha reso quasi una religione nazionale durante la dinastia Han, su pressione di Dong Zhongshu. Come mostra anche la storia del Cattolicesimo romano, quando la religione si allinea con le autorità secolari e diventa uno strumento della classe al potere, essa si separa dalla vita delle persone e perde le sue radici, fonte di vitalità.
Come può una simile reliquia, avvolta nell’aria ferma di un’epoca ormai passata, contribuire alla civiltà del XXI secolo? Questo aspetto negativo del Confucianesimo è una ragione per cui nutro delle riserve sulla sorprendente crescita economica del Giappone degli ultimi decenni. Il suo successo, sostenuto da una filosofia fondata su insegnamenti che appartengono a un’altra epoca, ha determinato grandi sacrifici a livello personale e lo svilimento dei diritti umani di ogni singolo individuo. Questa è una critica spesso rivolta al paese del Sol Levante dagli osservatori occidentali ed è una critica fondata. La dottrina della supremazia assoluta della company è basata su un modo di pensare feudale ed esclusivistico che, in superficie, assomiglia a un’etica della simbiosi, ma nella realtà è qualcosa di molto differente: un codice che antepone il sacrificio di sé a tutto il resto.
L’etica della simbiosi vera e vitale, cui gli asiatici dell’Est danno valore, non è limitata o definita da distinzioni postulate per esempio dalle «tre relazioni». Essa riflette un atteggiamento universale, caratterizzato da apertura mentale e dinamismo, e risponde con flessibilità al cambiamento dei tempi. Poiché si tratta di un’etica, essa si distingue sia dal non essere e dal caos primordiale del pensiero taoista sia dalle norme che pongono delle costrizioni alla società e agli individui.
Il famoso sinologo francese Leon Vandermeersch fece un’osservazione lungimirante secondo cui «il Confucianesimo non poteva che scomparire insieme alla società antica… Ma proprio quando il Confucianesimo sarà morto del tutto, la sua eredità potrà essere reinvestita in nuove forme di pensiero senza entrare in conflitto con i vari fattori dello sviluppo». (2)
Forse il reinvestimento dell’eredità confuciana può servire da antidoto all’eccessivo individualismo della civiltà occidentale e concorrere a realizzare una Via dell’Umanità universale. Uno dei più importanti scopi della civiltà nel prossimo secolo sarà proprio quello di individuare e seguire una Via universale.
L’ideale di datong, o «grande unità», fu uno dei concetti centrali che si svilupparono nel tardo pensiero confuciano ed esso rappresentò un primo passo nella direzione di un’etica della simbiosi. Quando il professor Kong Fan, membro di questa Accademia, venne in visita in Giappone nel 1990, fece un’illuminante conferenza in cui mise in evidenza il cuore profondamente positivo della tarda filosofia confuciana. Questa è la filosofia della grande unità, articolata da K’ang Yu-wei e Tan Sitong e sviluppata da Sun Yat-sen. Tan Sitong chiarì l’aspetto della purezza e dell’universalità del concetto della «grande unità» con una descrizione efficace. Regni quali l’esistenza, il vuoto e gli esseri senzienti sono intimamente uniti da qualcosa di estremamente sottile che fa sì che ogni elemento sostenga e penetri gli altri, collegando e permeando ogni cosa. Mi sembra che l’idea della grande unità sia il sogno del popolo cinese che aspira a una società ideale, una grande utopia, fondata sull’etica della simbiosi.

LA RETTIFICA DEI NOMI

Una delle fonti di questa visione utopica è la battaglia intellettuale interiore, portata avanti dallo stesso Confucio. Alcuni celebri brani degli Analecta rivelano l’atteggiamento equilibrato, di cui il venerabile maestro si fece portatore, tra la conoscenza e le azioni dell’uomo, da una parte, e la saggezza trascendentale dall’altra: «Dire che sai quando sai e dire che non sai quando non sai – questa è conoscenza». (3)
«Se non siamo ancora in grado di servire l’uomo, come possiamo servire gli esseri spirituali?». (4)
«Se non sappiamo nulla della vita, come possiamo sapere della morte?». (5)
Queste forti affermazioni, che ci riportano alla memoria la “saggezza dell’ignoranza” di Socrate, non potevano che trarre origine da una mente tanto formidabile quanto umile. Le conclusioni di Confucio sono espresse in aforismi perché il loro valore semantico sia chiaro e convincente anche a livello visivo, grazie ai caratteri cinesi. Tuttavia, la battaglia intellettuale precedente la formazione di queste semplici asserzioni è analoga agli estesi dialoghi e profondi dibattiti in cui si impegnò Socrate e che, alla fine, gli costarono la vita.
Forse, espressione archetipica dell’intensa ricerca di sé da parte di Confucio è la domanda posta da Zilu (Tzu-lu) che avrebbe avuto un ruolo di spicco nello sviluppo della teoria della “rettifica dei nomi”:
«Tzu-lu disse: “Se il Signore di Wei ti lasciasse l’amministrazione del suo stato, a cosa daresti la priorità?”
Il maestro rispose: “Se qualcosa dovesse essere messo al primo posto, forse, dovrebbe essere la rettifica dei nomi.”
Tzu-lu disse: “Davvero? Che via traversa prendi! Perché scegli la rettifica come prima cosa?”
Il maestro rispose: “Come sei rozzo. Laddove un uomo onorevole è ignorante, non ci si aspetta che possa offrire la propria opinione. Quando i nomi non sono corretti, ciò che è detto non sembra ragionevole; quando ciò che è detto non sembra ragionevole, gli affari non culminano nel successo; quando gli affari non culminano nel successo, i rituali e la musica non fioriscono; quando i rituali e la musica non fioriscono, le punizioni non sono adeguate ai crimini; quando le punizioni non sono adeguate ai crimini, le persone comuni non sanno dove mettere le mani e i piedi. Così quando l’uomo onorevole nomina qualcosa, è sicuro che il nome possa essere usato in un discorso e, quando parla, è sicuro che ciò che dice possa essere messo in pratica. Qualsiasi cosa pertinente all’uomo onorevole è tutto tranne che casuale quando si basa su un discorso.”» (6)
Qui l’affermazione «Laddove un uomo onorevole è ignorante, non ci si aspetta che possa offrire la propria opinione», corrisponde al brano prima citato: «Dire che sai quando sai e dire che non sai quando non sai – questa è conoscenza». L’atteggiamento rigoroso e ascetico nei confronti del linguaggio sembra essere una caratteristica comune a tutte le grandi menti del passato e del presente. Il punto in discussione è la corrispondenza tra il linguaggio e la realtà o la corretta denominazione delle cose. Nel Medioevo, i filosofi scolastici europei condussero un dibattito inutile, e apparentemente infinito, riguardo il Realismo e il Nominalismo. Con la crescente atmosfera di crisi generale, caratteristica dei periodi di cambiamento radicale, i grandi pensatori spesso volgono l’attenzione alla ridefinizione della terminologia. Questo fu vero sia per Socrate sia per Cartesio, «padre della filosofia moderna». Quest’ultimo visse in un periodo di caos successivo al crollo del sistema di pensiero tradizionale. Prima che egli potesse giungere al celebre «Penso dunque sono», dovette completare un pellegrinaggio dentro di sé con un inesorabile autoesame che lo mise a dura prova.
Possiamo riscontrare la stessa tendenza nella confessione addolorata di Confucio, «Sto pensando di smettere di parlare», (7) che sorprese molto il suo discepolo Zigong (Tzu-kung). Molti secoli dopo, riflettendo il senso di crisi che prevalse nel tardo periodo Ching, anche Tan Sitong dichiarò che i “nomi” erano un ostacolo alla comprensione profonda dell’umanità. Nel suo scritto egli incriminò la fragilità del giudizio umano, limitato com’è dai nomi. Il grande rinnovamento dell’interesse nel linguaggio, oggi, sia in occidente sia in oriente, mette in rilievo la spessa coltre che oscura gli ultimi anni del XX secolo.
è importante riconoscere il radicalismo assoluto di Confucio quando, nel tentativo di armonizzare i rituali, la musica e le punizioni, principi essenziali di governo e fondamenta della gerarchia sociale, egli considera la rettifica dei nomi come il pilastro della sua politica. Certo, il suo scambio con Zilu potrebbe essere un’argomentazione politica sulla successione al trono, una discussione su chi si definisce governante e chi merita veramente di chiamarsi tale. Tuttavia, la natura radicale del suo pensiero va oltre la semplice applicazione nel campo della politica. Nel suo tentativo di unire il linguaggio alla realtà, Confucio si batte per una purezza spirituale superiore. Il suo pensiero anticipa la ricerca di un ordine essenziale delle cose, o asse cosmico, come a volte viene descritto.
Fin dai tempi antichi, quei sistemi di pensiero che meritano il nome di «filosofia» o «religione» hanno dato origine a una visione del mondo onnicomprensiva, ad almeno due dimensioni. La prima è una teoria del valore, o etica, relativa a come l’esistenza dell’uomo dovrebbe essere vissuta. La seconda è una teoria dell’essere, o ontologia, che postula la struttura dell’esistenza oppure del mondo. Si è spesso osservato che il pensiero di Confucio, Mencio e di altri tra i primi studiosi confuciani, era povero dal punto di vista ontologico se comparato alla sua ricchezza di contenuti etici. Tuttavia, nell’affermazione del maestro, «Se qualcosa dovesse essere messo al primo posto, forse, dovrebbe essere la rettifica dei nomi», è possibile individuare una traccia dell’ontologia del Confucianesimo Sung che più tardi si trasformò in un sofisticato sistema arricchito dal Buddismo e da altre scuole di pensiero.
L’affermazione che riguarda la rettifica dei nomi condensa la pura forza centripeta della gerarchia nella precisione concisa delle parole che dichiarano la qualità profetica del loro contenuto. Questa potrebbe essere la ragione per cui la filosofia del linguaggio, conosciuta come rettifica dei nomi, si diffuse ampiamente. Certo, l’influenza di questa filosofia andò ben oltre l’epoca e il luogo che le diedero i natali ed esplose nel mondo del pensiero, partendo da una semplice osservazione che dava priorità alla «rettifica dei nomi».

BUDDISMO E CONFUCIANESIMO

Per quanto possa sembrare arduo, desidero mettere in rapporto questa osservazione di Confucio con quella del filosofo cinese buddista Tiantai Zhiyi (T’ien t’ai) nel suo Hokke Gengi (Profondo significato del Sutra del Loto): «All’inizio del kalpa della stabilità, le varie cose nel mondo non avevano nomi. Il saggio osservando i principi che le governavano coniò i nomi corrispondenti». (8) Mentre Confucio è alla ricerca di un ordine tramite la rettifica dei nomi, Zhiyi parla della creazione dei nomi per produrre ordine. Sebbene ci siano delle differenze nelle sfumature, sia il Confucianesimo sia il Buddismo cinese danno particolare importanza ai nomi, ultimo tocco alla gerarchia costituita da tutte le cose esistenti.
Questa enfasi possiede una qualità «cinese». Nell’ambito della stessa grande tradizione del Buddismo Mahayana, troviamo il maestro indiano Nagarjuna che, nel suo Chu Ron (Il cammino della Via di Mezzo o in sanscrito Madhyamaka – Karika), si muove, attraverso il mondo fenomenico della discriminazione e delle distinzioni stabilite dai nomi, in un mondo di non discriminazione e non distinzione. Egli pone al centro la progressione da un’esistenza terrena al regno che la trascende. Al contrario, Zhiyi, sebbene passi attraverso lo stadio di liberazione dal mondo in un regno che lo trascende, torna infine alla realtà secolare. Il vettore che va dall’esistenza terrena a quella trascendentale è capovolto. Nonostante la sua sia una ricerca in stile tipicamente buddista, Zhiyi sviluppa il concetto dell’universalità in modo tale che, a differenza di Nagarjuna, egli lo individua nel mondo concreto dei fenomeni. Per me, la posizione di Zhiyi rivela l’influenza della spiritualità dell’Est asiatico. Il professor Kong Fa identificò questa stessa influenza in occasione di un suo seminario: «Il pensiero buddista» disse, «cercò sostegno nel Confucianesimo e, mescolandosi con esso, riuscì a svilupparsi nel contesto della società cinese».
Il capovolgimento del vettore da parte di Zhiyi verso il mondo concreto non rappresenta un cambiamento nella natura del Buddismo. Piuttosto, esso è testimone dell’evoluzione della religione che avviene durante la trasmissione della stessa da un’epoca a un’altra. è proprio perché il pensiero buddista riconobbe l’importanza del mondo fenomenico che esso poté assimilare e sublimare l’ethos della simbiosi che scorreva nelle profondità della spiritualità orientale. Se il Buddismo avesse perso la propria capacità di adattarsi, non sarebbe mai riuscito a raggiungere il suo scopo principale, cioè la salvezza di tutti gli esseri senzienti.
Nel 1998 incontrai a Tokyo un gruppo di studiosi tra cui Liu Guoguang, primo vicepresidente di questa Accademia. In quella occasione, abbiamo discusso delle scritture di Tiantai Zhiyi e delle loro premesse fondamentali. Ho fatto notare ai miei interlocutori che il Buddismo autentico non esiste separato dal mondo, che è in costante cambiamento. Quest’ultimo non si distingue dal caos del regno fenomenico ed è legato all’economia, alla politica, alla vita quotidiana e alla cultura. La grande missione del Buddismo, inoltre, è di offrire energia a tutti gli aspetti dell’attività umana e incanalarli verso la realizzazione del vero valore.
Le parole di Zhiyi prima citate sono spiegate nella tradizione del Buddismo Mahayana come segue: «Il principio supremo (cioè la Legge Mistica) in origine non aveva nome. Mentre il saggio osservava i principi e assegnava i nomi a tutte le cose, percepì l’esistenza di una Legge meravigliosa (myoho) dotata simultaneamente di causa ed effetto (renge) e la chiamò Myoho renge. Questa Legge di Myoho renge comprende in sé tutti i fenomeni dei dieci mondi e dei tremila regni, nessuno escluso. Chiunque pratichi questa Legge otterrà simultaneamente sia la causa che l’effetto della Buddità». (9)
La prima parte di questo commentario si riferisce all’Hokke Gengi e riguarda la creazione dei nomi, mentre la seconda sezione è un riassunto dell’ontologia di T’ien T’ai del principio di ichinen sanzen (un singolo istante di vita contiene tremila mondi). La frase finale: «Chiunque pratichi questa Legge otterrà simultaneamente sia la causa che l’effetto della Buddità» si riferisce ai criteri secondo cui dovremmo vivere la nostra esistenza. Il commentario espone quindi una teoria riguardante sia il valore sia la pratica vera e propria. Le sue forti implicazioni sociali vanno, in parte, a compensare i limiti del Buddismo di Tiantai e cioè la mancanza di praticità necessaria per essere definito un ethos. Tuttavia il commentario delinea in modo articolato una visione religiosa del mondo che unisce l’ontologia e l’etica.

ZHOU ENLAI

L’ethos della simbiosi, espressione profonda e piena di valore della spiritualità dell’Asia orientale, è stato alimentato come un fiume sotterraneo per vari millenni. Durante tutto questo tempo, esso ha contribuito come elemento umanitario, unico nel suo genere, ad altri sviluppi più recenti, incluso il socialismo cinese. Non abbiamo spazio per approfondire questo punto, ma desidero prendere in considerazione la personalità del premier Zhou Enlai (Chou En-lai), che ritengo un modello di esistenza vissuta seguendo l’ethos della simbiosi.
Ho incontrato il premier una volta, circa un anno prima che morisse. Di recente ho intrattenuto un colloquio con Han Xu, presidente dell’Associazione popolare cinese per l’amicizia con i paesi stranieri, che lavorò con Zhou Enlai per vari anni al Ministero degli Affari Esteri. I tanti racconti che Han Xu ha condiviso con me hanno solo aumentato il mio rispetto per Zhou, un uomo di notevole spessore. La cura di Zhou Enlai per gli ospiti stranieri che incontrava e la sua attenzione per il loro benessere erano straordinarie. Il premier aveva un’eccezionale memoria, esercitata grazie alla sua intensa e sincera dedizione al dovere. Il senso di responsabilità di quest’uomo instancabile sembrava non essere limitato alla Cina, ma era esteso a tutto il mondo.
Il premier Zhou Enlai aveva una personalità che ben si adattava al suo ruolo. Era onesto e imparziale e non permetteva mai ai propri familiari o agli affiliati di utilizzare il suo nome o la sua influenza a loro beneficio. Aveva sempre una visione d’insieme pur non trascurando i dettagli, mantenne sempre una ferma convinzione nel cuore e mostrò un gentile sorriso al mondo. Zhou non era egocentrico ed era, allo stesso tempo, un cinese modello e un cosmopolita. Con il suo sguardo affettuoso nei riguardi della popolazione della sua nazione, egli era un’anima meravigliosa, erede dello spirito dello scrittore Lü Xun, vissuto all’inizio del XX secolo, il quale affermò che «la rivoluzione deve restituire la vita alle persone, non sottrargliela». Zhou fu l’incarnazione vivente dell’ethos della simbiosi che privilegia l’armonia rispetto al conflitto, l’unità rispetto alla divisione e il noi rispetto all’ io. Al termine di questo secolo, che vede un profondo sconvolgimento delle relazioni umane, egli resta un esempio della personalità che oggi sarebbe necessaria.
L’ethos della simbiosi non è legato al solo regno della società umana. Esso ha una dimensione cosmica e lavora nella natura e nell’universo. Il principio buddista dell’interrelazione tra umanità e natura è espresso nella frase «montagne e fiumi, piante e alberi tutti raggiungono la Buddità». Questa convinzione profonda ricoprirà un ruolo sempre più centrale con l’aumentare dei problemi riguardanti l’inquinamento, la distruzione dell’ambiente e lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. All’albeggiare del XXI secolo, il mondo porrà attenzione non solo alla performance economica dell’Est asiatico, ma anche alla sua profonda spiritualità. Questa regione diventerà una forza motrice nella storia; una fonte di speranza e di rinnovate aspettative per tutte le persone. Permettetemi di concludere con una strofa del poeta Tao Qian (T’ao Ch’ien), vissuto nel quarto secolo: (10)

Perché tutti gli amici devono essere
solo compagni di lunga data?
Anche con un conoscente casuale si può essere sinceri.
Questo mio ospite approva ciò che prediligo
e giorno dopo giorno viene a guardar da presso
il mio giardino.
Le nostre conversazioni sono piacevoli,
libere dalla volgarità
e discutiamo sulle scritture dei saggi
.

NOTE
(1) Le tre relazioni sono tra il sovrano e il ministro, tra padre e figlio e tra marito e moglie. Le cinque pratiche sono umanità, rettitudine, rispetto dei rituali, saggezza e fede.
(2) Leon Vandermeersch, Aja Bunka-ken no Jidai, trad. Tadayuki Fukukane, Tokyo, Taishukan Shoten Ltd., 1987,pag. 184.
(3) Confucio, Analecta, II, xvii.
(4) Ibidem, XI, xii.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem, XIII, iii.
(7) Ibidem, XVII, xix.
(8) Gli Scritti di Nichiren Daishonin, vol. 9, pag. 11.
(9) Ibidem, pagg. 11-12.
(10) T’ao Ch’ien (356-427): primo grande nome di scrittore del periodo delle Sei Dinastie, influenzato dal Taoismo, fu autore di poesie e di prose in cui descrisse mirabilmente con pochi tocchi la bellezza dei paesaggi naturali. Fra le sue opere ritroviamo il T’ao hua yüan-chi (Memoria della sorgente dei fiori di pesco) in cui egli delinea una società felice che vive appartata dai disordini sociali, a contatto con la natura, e che non vuole sapere nulla del mondo esterno da cui si è allontanata da tempo immemorabile.

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