Foto di Bernardo Bertolucci

«Nella mia famiglia la creatività era considerata come qualcosa di assolutamente normale – racconta il regista Bernardo Bertolucci – legata allo scorrere della vita…». Una vita dove la poesia era sempre presente: il padre Attilio era uno dei maggiori poeti contemporanei. Ma «A quindici anni mi resi conto – continua il regista – che la poesia non mi apparteneva e già sapevo cosa avrei voluto fare: il cinema».
Il nuovo cammino è segnato da un incontro straordinario: quello con Pierpaolo Pasolini. Il giovane Bernardo, «assiste» alla prima regia dell’artista come a un evento eccezionale, come se una macchina del tempo lo riportasse indietro negli anni: sotto i suoi occhi Pasolini «sta inventando» il linguaggio cinematografico.

La gente, molto spesso, immagina la creatività come un patrimonio di pochi, come se a determinarla fosse un fattore genetico. Il Buddismo Mahayana descrive invece una potenzialità che è presente nella vita di ogni persona. Qual è la sua opinione in proposito?

Ancora una volta Budda si rivela pre-freudiano. A chi ha un po’ di familiarità con Freud, l’idea di rendere tutto spiegabile attraverso la genetica, sembra un po’ troppo comoda. In realtà esiste qualcosa che forse è più forte della genetica stessa: l’inconscio. L’inconscio cosa è se non il Ku (il Chi dei cinesi), quella potenzialità misteriosa di cui parla il Buddismo?
Ogni dieci, quindici anni le interpretazioni cambiano: per un certo periodo si dice che quello che conta è la primissima infanzia, l’ambiente, l’educazione, poi, ciclicamente, si parla di genetica, di Dna o addirittura di memoria genetica. Nel mio caso immaginate un piccolo universo di campagna nel primo dopoguerra. La campagna è quella emiliana a pochi chilometri da Parma, tra la città e le colline, vicino, eppure lontanissimo, da quella zona mitologica adagiata sulle rive del Po, che a me, dal mio osservatorio di Baccanelli, sembrava irraggiungibile: il «grande fiume» circondato dalla grande pianura, come il Mississipi o il Nilo. Da casa mia potevo vedere sia le colline che la città, era una specie di zona di mezzo.
Immaginate dunque questo universo, un podere abbastanza piccolo, la casa dei padroni, quella dei contadini, io totalmente diviso tra le due case (come si può vedere nel film Novecento), e un padre poeta, grande poeta. Il mio modello primario è stato quello di una persona creativa. Per me bambino la cosa da fare da grande era scrivere poesie. In questo senso io ripeto sempre che credo di aver avuto il privilegio, la chance, di un grande maestro. Perché il modo di essere maestro di mio padre era, credo, non tanto diverso da quello di un guru, fascinoso, a volte incomprensibile, apparentemente mitissimo, sempre ipnotico, imbattibile, comunque il favorito di mia madre.

Come si svolgeva questa relazione maestro-discepolo?

L’insegnamento non avveniva mai all’interno dei confini rassicuranti, ma un po’ limitati della scuola. C’era l’esperienza profonda, immediata, direi quasi verticale, dalla superficie fino al cuore della cosa, della poesia. C’è un esempio che ho fatto altre volte, ma che considero molto efficace: mio padre parla di mia madre in una poesia che si chiama la Rosa bianca, la descrive come una rosa bianca che fiorisce in fondo al giardino, «le ultime api dell’estate l’hanno visitata», dice, e finisce: «Un po’ smemorata come tu sarai a trent’anni». Io leggo la poesia, esco di casa, con una corsetta arrivo in fondo al giardino ed ecco lì la rosa bianca.
Questo poter verificare nella realtà, nell’esperienza immediata della vita, qualcosa che avevo letto poco prima, era irresistibile come un gioco di specchi. Questa verifica nel reale getta sulla poesia una luce di incredibile verità: le parole non sono illusione, le parole sono soltanto il segno che definisce qualcosa che è lì, palpabile, davanti ai miei occhi e le parole gettano sulla rosa una luce in più. Ecco che lì io imparo cosa è la poesia. A sei, sette anni imparo a leggere e a scrivere. Naturalmente la prima cosa che scrivo sono poesie. Ho scritto la prima poesia alla fine dei sei anni.
Nel caso mio la creatività è stimolata da un esempio, viene dalla fortuna di essere un bambino che cresce vicino a qualcuno che scrive poesie e che non le circonda mai di quell’aura speciale, un po’ accademica, con cui le vivono i bambini che scoprono la poesia a scuola. Tutto è sempre nato nella verifica e nella conferma continua che la poesia non era altro che la risonanza di quello che accadeva ed esisteva intorno a me. Mio padre parla quasi soltanto di un mondo molto piccolo, del mondo intorno alla casa dove abitavamo e di quello intorno a una casa sull’Appennino dove si andava l’estate.
Il microcosmo, per il bambino, è un macrocosmo. È tutto quello che esiste, la poesia lo rispecchia e vi ci si specchia. Se qualcuno conosce le poesie di mio padre sa che i suoi temi sono quelli della sublimazione della quotidianità: il tempo che passa, le ore, i minuti, le luci che cambiano con il tempo che passa sulle cose amate, le persone amate, il comune rumore della vita diventa una musica sublime e struggente.

La Sua, quindi, era una situazione particolarmente favorevole.

In casa la creatività era considerata come qualcosa di assolutamente normale, legata allo scorrere della giornata, e della vita. Comunque c’era anche qualcosa di molto misterioso: mio padre ha una straordinaria cultura letteraria e figurativa, arte visiva e cinema, eppure io non l’ho mai visto leggere. La sua storia, invece, è diversa. Suo padre, mio nonno Bernardo, veniva dalle montagne, dalla famiglia benestante di un paesino piccolo e povero. Scende in pianura, diventa mercante di cavalli, rapisce una ragazza e si sposa. Non è una casa dove abitino molti libri, eppure da lì esce fuori quell’incredibile letterato che è mio padre. Anche il caso di Pasolini è analogo. Ma come avviene tutto questo? Se si prende il mio caso si può parlare di creatività genetica, ma per mio padre? Lui da dove viene fuori? So che a quattordici anni andò in viaggio premio a Venezia, entrò in una libreria e si comprò il primo volume della Recherche. Come ha fatto questo figlio di un piccolo proprietario di campagna a sapere di Proust appena pubblicato? Lui dice di aver letto su una copia della Nouvelle revue française, che ogni tanto arrivava a Parma. E la Nouvelle revue française chi gliel’ha mostrata?

Di suo padre si raccontano altri fatti particolari, che da bambino scriveva poesie per il suo maestro…

Sì, è vero, quando stava al convitto Maria Luigia, alle elementari, poneva sul davanzale della camera del maestro i foglietti delle poesie, lasciandoli lì come se li avesse portati il vento.

Insomma i bambini hanno una visione del mondo che poi risulta esser quella dell’adulto «creativo».

In me però è accaduta una strana cosa. Sono partito con le poesie e quando ho cominciato a entrare in quell’età in cui ci si ribella ai modelli, mi sono reso conto che la poesia non era roba mia. Era una forma rassicurante perché d’imitazione paterna.

Lei aveva già pubblicato un libro?

No, quello è successo a ventun’anni. La gazzetta di Parma aveva pubblicato una mia poesia, verso i dieci, undici anni, una specie di ode al refettorio dell’Onmi (opera nazionale maternità e infanzia). Con la nostra scuoletta di campagna eravamo andati in visita in città e avevamo mangiato in questo refettorio. Un pranzo povero, ma l’idea di essere in questo enorme ambiente, dove tutti mangiavamo insieme, in tre lunghissime tavole, mi aveva dato una grande emozione. Quella di chi si perde nella massa con gioia mai provata prima, quasi sessuale. C’erano centinaia di bambini, tutti venuti dalla campagna. In quell’occasione lessi questa poesia che in seguito fu pubblicata. Forse è il primo trionfo del mio esibizionismo represso.
A quindici anni mi resi conto che la poesia non mi apparteneva e già sapevo cosa avrei voluto fare: il cinema. Perché era questa cosa nuova, che veniva da fuori e mi portava fuori. Una finestra incredibilmente fascinosa per me. A sedici anni feci il mio primo film, naturalmente era in sedici mm. Con una macchina da presa prestata. Si chiamava La teleferica. Mio padre scrisse in quell’occasione una poesia su di me che filmavo.
Adesso, in questo momento, mi chiedo il perché. Forse per celebrare quel momento di distacco dal «modello». Poco dopo feci un altro film: La morte del maiale. In Novecento poi ho ripreso questo spunto. Ebbi per alcuni anni un trasporto incredibile nei confronti del cinema. Mi ricordo che andai in vacanza premio a Parigi dopo la maturità e passai tutto il tempo alla Cinematéque française.

La prima grande esperienza qual è stata?

A vent’anni c’è l’esperienza di assistente con Pasolini in Accattone. Qui vedo Pasolini inventare il cinema. Pasolini veniva dalla letteratura e non aveva l’esperienza filmica che, anche se in pochi anni, io mi ero già fatto. Aveva scritto qualche sceneggiatura, ma era soprattutto la letteratura che egli aveva così straordinariamente amato e frequentato. Questo nuovo linguaggio, per lui, era una scoperta e un’invenzione. Quando Pierpaolo faceva le prime carrellate in Accattone, io, assistente che non avevo mai fatto film, ma che conoscevo il cinema forse più di lui, ero consapevole della grande occasione di essere lì ad «assistere», in quelle dieci settimane delle riprese di Accattone, all’invenzione del cinema, all’invenzione di un linguaggio che io conoscevo già.
Era come vivere in una specie macchina del tempo che mi riportava dove Thomas Ince, Griffith o Eisenstein inventavano il cinema. Era come vedere la prima carrellata, il primo «primo piano» della storia del cinema, nel momento in cui vengono inventati dal nulla.

Gli studiosi dell’infanzia dicono che i bambini, anche se ripetono cose già scoperte da millenni, le vivono sempre come se fosse «la prima volta».

Anche per Pierpaolo era così: una prima volta. Infatti in lui c’erano insieme l’incredibile grado di sofisticatezza e quasi il voler conservare, covare, lo sgomento meraviglioso del naif. Dopo Accattone questo elemento naif diventò una cosa puramente decorativa, proprio perché lui era vertiginosamente pieno di talento. Una volta fatto un film aveva capito tutto del cinema.
Però ha mantenuto per molto tempo questa semplicità. Lui si definiva «un primitivo del trecento».

Ci aveva accennato, tempo fa, a un punto di vista particolare di Pasolini sulla sofferenza, sul rapporto di questa con la capacità creativa…

Quando iniziai la terapia analitica freudiana, eravamo nel 1969, (per me era il periodo tra Partner e La strategia del ragno e per lui quello che seguiva l’Edipo e Teorema) andai a parlargli spiegandogli, con l’entusiasmo del neofita, questa nuova esperienza della mia vita. Lui mi disse: «Devi stare molto attento, secondo me fai uno sbaglio perché ho paura che con l’analisi tu possa perdere la poesia… Fai come me, io ho letto Freud e lo conosco bene, lo possiedo…».
C’era in lui una specie di paura. Da cui scaturiva l’idea molto romantica, e in fondo molto cattolica, che per produrre poesia bisogna soffrire. Come se la qualità e forse anche la quantità di poesia fosse proporzionale alla qualità e alla quantità della sofferenza. Insomma, l’idea di genio e sregolatezza. Io affermavo che soffrendo un po’ meno sarei stato anche più creativo. Gli dicevo che non bastava leggere Freud, non bastava «possedere» Freud, ma che era necessario, magari, anche farsi «possedere» da Freud.
Penso che sarebbe stato straordinario che qualcuno della dimensione intellettuale di Pierpaolo avesse potuto accettare il rapporto con l’analista. Forse sarebbe ancora vivo, chissà…

Lei come ha elaborato questo punto di vista di Pasolini sulla sofferenza del creare?

Non ne posso parlare con troppa arroganza, perché non ne sono sicuro. Però ho la sensazione che io posso essere creativo sia in momenti di grande sofferenza, sia quando mi sento più armonioso con me stesso. Il primo film girato durante l’esperienza analitica, La strategia del ragno, l’ho fatto in uno stato di assoluta «felicità creativa».
Ma il periodo analitico non finisce mai, e l’ultimo film, Il té nel deserto, invece si nutre di sofferenza, è pieno di dolore e l’ispirazione è stata tutta trovata nella sofferenza. Sono due casi completamente diversi.

Calvino affermava, contrariamente a quanto dicevano gli studenti nel Sessantotto, che l’immaginazione non dovrebbe mai andare al potere. E la paragonava alla marmellata che deve essere spalmata su una solida fetta di pane. È d’accordo con questa opinione?

Credo anch’io che, come diceva Calvino, «l’immaginazione al potere» del Sessantotto era qualcosa cui mancava la «fetta di pane». La «fetta di pane» può essere la pagina scritta, lo schermo cinematografico o la tela del pittore. C’è sempre una superficie su cui viene sparsa l’immaginazione. Il massimo che riuscirono a trovare i ragazzi nel Sessantotto, come fetta di pane, erano i muri.
In quel periodo sono nati i graffiti e gli slogan sui muri. Devo dire che alcuni degli slogan erano molto affascinanti. Calvino voleva dire: state attenti che non basta nutrirsi del mito gratificante e narcisistico dell’immaginazione in sé. Immaginazione non significa niente finché non riesce a trovare un linguaggio. Se la creatività non trova delle forme in cui esprimersi non ha senso, e le forme non sono soltanto quelle canoniche; ci sono anche quelle dell’ebanista che fa un mobile, dell’imbianchino che tinteggia una casa o del capomastro che fa una piccola cappella bianca in un’isola greca. L’artigianato può arrivare al sublime. Forse esistono dei «raccontatori» che, nel bar di uno sperduto paesino della provincia veneta, tutte le sere riescono a esser straordinari usando solamente la loro fantasia, la voce e la mimica. È una forma di teatro spontaneo.
Sicuramente per Calvino e anche per Pasolini «l’immaginazione al potere» del Sessantotto era qualcosa di un po’ retorico e di nato dentro quella che loro chiamavano la «piccola borghesia» di quegli anni. Qualcosa di un po’ falso. Forse gratificante per dei giovani che poi non avevano un vero amore per la cultura. La cosa più reale e importante era l’istinto ribelle, che c’è sempre nei giovani. Sì, uno schermo che diventa anche un buco della serratura. Un buco attraverso cui io credo di aver guardato la realtà fin da quando spiavo dal «buco della serratura» dell’infanzia, cercando di vedere qualcosa che non ho mai visto, la scena primaria, allora non sapevo che si chiamasse così, e che, non avendo mai visto, ho dovuto immaginare. Credo che il cinema sia molto legato a questo tipo di voyeurismo infantile. In fondo si guarda dentro il buco della «camera», che poi è la camera da letto dei genitori, si cerca di guardare ciò che è proibito, che poi è il rapporto fortissimo dei genitori e, siccome non si riesce a vedere nulla, si immagina.
Allora esce l’immagine che poi viene proiettata sulla «fetta di pane». Si potrebbe proiettare un film su una gigantesca fetta di pane bianco… magari facendo della pop-art.

Leggendo le storie dei creativi si vede come ognuno avesse dei suoi metodi per stimolare la creatività. I suoi quali sono?

Non esistono per me dei canoni per indurre la creatività. È abbastanza vero che i sogni e l’interpretazione dei sogni mi sono stati d’aiuto. In fondo penso che la cosa più importante è non dimenticare mai la lezione della rosa bianca. Riuscire a trovare in ogni set, in ogni luogo in cui si gira, la rosa bianca e stabilire quel rapporto tra immaginazione e realtà. Farmi sempre guidare da qualcosa che esiste nella realtà.
I film sono delle storie che vengono pensate, elaborate e scritte in forma di sceneggiatura. È una lunga fase. Questa fase spesso tende a essere per il regista una specie di ricatto. Una specie di censura di tutto quello che avviene al di fuori della sceneggiatura. Io da sempre ho capito, ho sentito, che ciò che si è messo, o trovato, davanti alla macchina da presa deve poter resistere.
A volte direttamente, a volte indirettamente in modo molto dialettico con quanto è stato pensato prima. Molto spesso quanto esiste lì, nella realtà, per me è infinitamente più attraente di quanto elaborato prima. Questo butta naturalmente nel panico alcuni miei collaboratori, perché qualcosa che è fuori campo io faccio in modo che entri in campo. In questo modo tutta l’organizzazione entra in crisi.
Negli anni settanta incontrai Renoir a Hollywood, ero lì per fare il casting di Novecento. Dopo una lunga conversazione con questo incredibile maestro del cinema, aveva quasi ottantanni e parlavo con lui come se fosse un giovane regista della Nouvelle vague, lui mi disse: «Bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set».
Voleva dire che quando si è su un set bisogna permettere all’imprevedibilità di entrare nel film. Questo vuoi dire dare più spazio alla realtà. Questo aggiunge, ogni volta che riesco a farlo nei miei film, qualcosa di molto forte e spero anche di irresistibile. I miei film sono nutriti di questo.

Questo «irrompere della realtà» comporta una preparazione particolare?

Durante la fase di sceneggiatura sono minuzioso e mai contento, proprio per questo motivo. Voglio avere le sceneggiature molto ben costruite in modo da poter, al momento delle riprese, permettere l’intrusione della realtà. Se la sceneggiatura è ben costruita «accetta» questi scontri. Se la sceneggiatura è debole la realtà può sconvolgere tutto e creare un caos fastidioso.

Rimane, quindi, sempre un senso di meraviglia di fronte alla realtà.

Sì certo. Credo che questo stupore ci sia sempre nello sguardo di chi crea. E quando c’è, sicuramente lo si comunica a chi riceve l’opera creata. A volte lo si comunica senza rendersene conto. La sensazione della «prima volta» appare in me ogni volta che ho un’emozione estetica.

Pasolini diceva di pretendere dagli spettatori lo stesso sforzo che lui aveva fatto per girare il film. Lei cosa desidera dai suoi spettatori?

Io forse tradurrei la parola «sforzo» nella parola «amore». Diciamo che c’è una storia d’amore tra lo spettatore e il film. Vorrei che ci fosse, in chi osserva, lo stesso tipo, se non di più, di trasporto amoroso che c’è stato in me nel momento in cui ho creato il film. O che c’è da parte del film nei confronti del pubblico. Barthes affermava che il testo dice al suo lettore: «Sono tuo, possiedimi».
In fondo per un film dovrebbe accadere la stessa cosa. Anche di più, perché, nel nero ipnotico della sala cinematografica, il rapporto tra film e spettatore è tale per cui lo spettatore spesso si trova in stato di passività. Raramente come al cinema si mette in moto un’identificazione così forte tra chi guarda e ciò che è visto. E il film spesso tende a sopraffare lo spettatore.
Se si va fuori di una sala e si chiede a chi esce cosa ha visto, il pubblico spessissimo o riesce vagamente a raccontare un po’ della cosiddetta «trama», o proprio non ha visto tante delle cose che c’erano nel film. Il film comunque è arrivato. Questo vuoi dire che il film ha un potere di assoggettazione sullo spettatore, un po’ come avviene nei sogni. I sogni non si ricordano sempre, spesso si ricorda il sentimento che li permeava.

Musatti infatti paragonava il cinema al sogno.

Ho conosciuto bene Musatti, era un uomo straordinario. Una volta ho dormito nella stessa casa dove dormiva lui…non ho mai dormito così bene. Comunque la stoffa dei sogni è la stessa stoffa dei film.

Genet nel Diario di un ladro diceva che: «II creatore si è impegnato in un’avventura incredibile che è quella di assumere su di sé, fino in fondo, i pericoli che corrono le sue creature». Com’è il rapporto con le creature dei suoi film?

Assieme a questo aspetto di cui parla Genet, c’è il momento in cui sono le creature che io invento per i miei film a prendersi addosso tutti i pericoli che corro io. Io proietto sulle mie creature, e queste, a loro volta, proiettano su di me.
Quando io invento per Novecento due ragazzi che si chiamano Olmo e Alfredo, uno è il contadino e l’altro è il padrone, nascono lo stesso giorno e percorreranno più o meno insieme, quasi per mano, una parte del secolo, io proietto fuori da me uno sdoppiamento che c’è in me, una doppia faccia della mia natura. Quindi sono i personaggi che si prendono addosso i rischi che ho corso io. Quando Genet parla dei rischi si sa benissimo quanto in realtà lui quei rischi li corresse veramente. Lui parla come se incontrasse quei personaggi nella strada, in quelle sue notti molto pericolose come se insieme a loro vivesse quelle esperienze. Sono però anche personaggi che lui ha inventato. Insomma, ai tempi di Sentieri selvaggi John Ford avrebbe dovuto farsi scotennare…. Adesso però ci manca manca un finale per l’intervista.

Potremmo anche immaginarla come un’intervista senza finale.

Si, lasciamo dei puntini di sospensione, almeno sette o otto righe di puntini. …………………
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Da DuemilaUno nr.26 del maggio-giugno 1991

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