Tra i personaggi che con la loro vita e opera hanno contribuito alla diffusione del Buddismo spicca il nome di Kumarajiva, colui che tradusse il Sutra del Loto dal sanscrito al cinese facendone la versione più compiuta e diffusa, tanto che divenne un testo popolare sia in Cina che in Giappone. Nichiren si è basato su questa traduzione e ancora noi oggi, nella pratica di Gongyo, ne recitiamo due capitoli.
La sua vita è nota grazie a ben tre biografie redatte in cinese, di cui una composta da un suo diretto discepolo, che data la sua morte nel 413 a 69 anni. Secondo la Biografia di monaci eminenti, invece, sarebbe nato nel 350 e morto nel 409. Di certo si sa che era nato a Kucha, da padre indiano del Kashmir discendente da un lignaggio di brahmani di corte, convertitosi poi al Buddismo, e da madre kucheana, sorella minore (o figlia secondo altri) del re di Kucha.
Lungo la Via della Seta
Sia i natali che il luogo in cui nacque ci proiettano nel carattere cosmopolita di Kumarajiva. Kucha, vera e propria città-stato lungo il braccio della Via della Seta che costeggiava a nord il deserto del Taklamakan nel bacino del Tarim (oggi nell’attuale regione autonoma dello Xinjiang in Cina), era all’epoca un fiorente regno dove il Buddismo era ampiamente diffuso e praticato dalla popolazione.
La Via della Seta era la principale via di comunicazione e di traffici commerciali conosciuta fin dall’antichità: all’andirivieni dei mercanti si univano pellegrini, missionari e viaggiatori e con loro si spostavano le idee e le fedi religiose. Fu così che il Buddismo si propagò verso est: monaci e missionari si muovevano dall’India alla Cina per diffondere la nuova fede mentre altri, monaci e pellegrini, si incamminavano dalla Cina fino ai territori occidentali e all’India alla ricerca di nuovi testi e di sapienti maestri per approfondire la dottrina.
Un giovane promettente
In questo contesto fiorente, crocevia di genti e di idee, visse Kumarajiva. Quando la madre prese i voti religiosi, Kumarajiva aveva sette anni e li ricevette con lei: si narra che già manifestava doti straordinarie riuscendo a imparare a memoria le strofe dell’Abhidharma.
Dopo due anni la madre lo portò con sé in Kashmir per approfondire la conoscenza del Buddismo, all’epoca limitata alle opere della scuola Sarvastivada, la più diffusa tra le scuole theravada. Da lì, in un viaggio che durò tre anni, raggiunsero Kashgar. A ogni tappa il giovane ebbe modo di incontrare validi maestri che gli permisero di approfondire le dottrine buddiste. In quegli anni non solo concluse lo studio delle opere theravada, ma imparò anche gli antichi testi sacri del Bramanesimo e delle scienze allora conosciute, quali la medicina, l’astronomia, l’esegetica e la logica. L’acquisizione di questa vasta sfera di conoscenze lo rese esperto nella lingua sanscrita, nel pali e nelle altre lingue indiane e centro-asiatiche, abilità che gli si sarebbero rivelate indispensabili per la sua futura attività di traduttore di quei testi buddisti tanto complessi. Dovunque andasse si distingueva non solo per le sue doti mnemoniche e di comprensione ma anche per la sua capacità di spiegazione e interpretazione della dottrina nei dibattiti religiosi.
L’incontro con il Mahayana
La tappa a Kashgar fu determinante dato che vi incontrò il monaco Suryasoma che lo risvegliò alla profondità delle dottrine mahayana, ponendole in contrasto con la limitatezza degli insegnamenti theravada. Da allora iniziò a studiare, mandandole a memoria, le principali opere di Nagarjuna e di Aryadeva, come il Madhyamakakarika (Le Strofe del Cammino Mediano) e i suoi commentari, e la letteratura sulla Perfezione della Saggezza. All’epoca aveva solo dodici anni.
Intanto la sua fama di maestro e oratore lo precedeva tanto che il re di Kucha lo richiamò in patria. Aveva compiuto vent’anni; ormai aveva terminato il periodo di noviziato e venne ordinato monaco buddista. Sua madre, che gli era stata accanto e lo aveva guidato, prima di partire di nuovo per l’India gli ricordò l’importanza della sua missione: «Dovresti rendere noto il profondo insegnamento del Mahayana in Cina. Se si diffonderà nei paesi orientali dipende solo da te». Intanto in Cina giungevano gli echi della sua fama: pellegrini tornati in patria riferivano delle straordinarie abilità del maestro buddista Kumarajiva quanto a conoscenza e profondità nello spiegare la Legge.
A Ch’ang-an, la porta d’Occidente per i cinesi, dove i due rami della Via della Seta si congiungevano, esisteva già un gruppo di monaci buddisti attivi nelle traduzioni dei testi in cinese e questo suggerì all’allora imperatore Fu-Chien, della dinastia dei Ch’in anteriori, di invitarlo a Ch’ang-an.
Una lunga prigionia Assecondando le sue mire espansionistiche, Fu-Chien nel 384 inviò una spedizione militare guidata dal generale Lu Kuang per conquistare Kucha e portare a Ch’ang-an Kumarajiva che però non vi arrivò dato che il generale, una volta compiuta la missione, saputo sulla via del ritorno che l’armata del suo sovrano era stata sconfitta e lui ucciso, si autoproclamò signore di Liang Chou, nella regione dell’attuale Kansu, e lì trattenne Kumarajiva come bottino di guerra, in una sorta di prigionia. Il monaco aveva allora circa quarant’anni e in questa condizione dovette trascorrere ben sedici anni, durante i quali sopportò le angherie e le prepotenze del suo signore. Nondimeno da questo periodo di difficoltà Kumarajiva riuscì a trarre grande vantaggio dato che potè apprendere il cinese alla perfezione.
Maestro della nazione
La sua sorte mutò con la conquista del trono imperiale cinese da parte di Yao Hsin, sovrano della dinastia dei Ch’in posteriori che, interessato al Buddismo, non esitò a conquistare Liang Chou per liberare Kumarajiva e condurlo finalmente, nel 401, a Ch’ang-an sotto la sua protezione e con tutti gli onori. Si dice che al suo arrivo nella città, dove visse fino alla fine dei suoi giorni, da tutte le regioni della Cina accorsero monaci per apprendere i suoi profondi insegnamenti e per collaborare con lui.
Anche l’imperatore lo considerò come suo mentore, introducendolo a corte e nominandolo “maestro della nazione”. Fonti riferiscono che sotto l’influenza di Kumarajiva l’imperatore fu clemente con i suoi nemici ed evitò spargimenti di sangue nelle sue conquiste, tanto che l’espansione dell’impero ne fu compromessa. Fu durante il suo regno che la gran parte della popolazione cinese si convertì al Buddismo. L’imperatore stesso incoraggiò e protesse l’attività più importante di Kumarajiva, la traduzione dei testi sacri in cinese cui si dedicò con passione a un ritmo stupefacente.
A lui vengono attribuiti da un minimo di trentacinque a un massimo di settantaquattro tra sutra e opere tradotte, soprattutto appartenenti al Mahayana, le più complesse da comprendere e tradurre.
La traduzione del sutra
La massima espressione del suo impegno è evidente nella versione del Saddharmapundarikasutra, che rese in cinese come Miao-fa lieng-hua ching, il Sutra del Loto della Legge meravigliosa. Un suo discepolo ricorda come il maestro, nel tradurre l’opera, sapesse esprimere i pensieri più profondi con parole semplici ma dense di significato. Avvalendosi di esempi familiari, riusciva a penetrare quanto era nascosto sotto il livello superficiale delle frasi e ne estraeva i concetti fondamentali. Uno dei suoi discepoli, Seng-Jui, ci informa del suo metodo di lavoro nel tradurre il sutra: «Il maestro sapeva prendere in mano il testo scritto in lingua straniera e renderlo oralmente in cinese. Inoltre trascriveva i suoni stranieri e di volta in volta chiariva il significato del testo».
Con la sua opera Kumarajiva inaugurò quella che può essere considerata la seconda stagione della diffusione del Buddismo in Cina. Infatti abbandonò il metodo precedentemente utilizzato nelle traduzioni dei testi, che si avvaleva di termini presi in prestito dal Taoismo e dal Confucianesimo per far comprendere ai cinesi dei concetti lontani per cultura e tradizione. Introdusse quindi nuovi termini, indispensabili per tradurre i profondi principi della letteratura mahayana e coniò uno stile peculiare, caratterizzato da fluidità e scioltezza, che rifletteva la sua preoccupazione di enucleare il significato profondo tralasciando la resa letterale.
Le traduzioni di Kumarajiva appaiono spesso più brevi e concise rispetto a quelle effettuate dopo di lui e anche rispetto alla versione sanscrita conosciuta, e per questo sono state considerate fino a poco tempo fa dalla critica meno precise. Studi recenti hanno invece evidenziato come, in quei rari casi in cui si sono conservati anche solo frammenti di manoscritti più antichi in una lingua indiana, la traduzione di Kumarajiva ne offra un esatto parallelismo. Ciò significa che egli lavorava su testi indiani più antichi rispetto alle versioni sanscrite più tarde e dense di interpolazioni giunte fino a noi.
Il metodo di lavoro
Fondamentale per capire la profondità e l’esattezza delle sue traduzioni è conoscere il metodo di lavoro che era solito impiegare. I biografi raccontano che convocava tutte le persone in una grande assemblea e, con i testi alla mano, ne esponeva la sua interpretazione sotto forma di lezione.
Quando spiegava il significato delle scritture motivava anche le scelte lessicali e sintattiche nel renderle in cinese. Seguivano dei dibattiti che duravano fino a che tutti i presenti non avessero compreso appieno. Una volta decisa la versione definitiva, questa veniva trascritta in più copie e divulgata dagli stessi redattori nei vari centri del paese. La sua apertura di vedute gli fece comprendere l’importanza della collaborazione con gli altri; seppe ascoltare le opinioni e percepire i dubbi e le perplessità anche più insignificanti, e ciò lo spinse a cercare sempre la forma e l’espressione più adatte.
L’imperatore, preoccupato che il maestro morisse senza lasciare eredi del suo genio, lo indusse a rompere la regola monastica del celibato proponendogli di sposare sua figlia. Kumarajiva accettò ma ne restò profondamente segnato tanto da paragonare la sua figura agli occhi degli altri al fiore del loto che va considerato per la sua bellezza di fiore e non per il fango in cui cresce.
Si narra che in punto di morte così si rivolse ai discepoli: «Nella mia ignoranza ho forse commesso qualche errore nel corso delle traduzioni. […] Ma se non ci sono sbagli nelle versioni che ho redatto, allora, quando il mio corpo verrà cremato, la mia lingua non verrà arsa dalle fiamme». E sembra, secondo la tradizione, che tale organo fu l’unico ritrovato intatto dopo la cremazione nel giardino di Hsiao-yao, dove lui era solito tenere le sue sedute di traduzione.
Bibliografia:
D. Ikeda, Buddismo in Cina, Sonzogno, Milano, 1997.
E. Zürcher, The Buddhist Conquest of China, 1959.
J. Nattier, A few good men: the Bodhisattva path according to the Inquiry of Ugra, 2003.
Articolo pubblicato sulla rivista Buddismo e Società nr.163