In un clima di intensa partecipazione, il 26 ottobre alle ore 17, nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma si è inaugurato l’incontro internazionale per la Pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dal suggestivo titolo “Osare la Pace”. Quest’anno l’attesissimo evento si svolgerà nell’arco di tre giornate, dal 26 e al 28 ottobre, che prevedono 22 forum, e si concluderà con l’incontro di preghiera al Colosseo in presenza di Papa Leone XIV che coinvolge i rappresentanti di tutte le religioni mondiali convocati a un impegno collettivo: quello appunto di “osare la pace”.





L’iniziativa riunisce leader religiosi di tutto il mondo, personalità della cultura, autorità civili e rappresentanti della politica, e costituisce una testimonianza viva, concreta della possibilità reale di unirsi per costruire insieme la pace attraverso il dialogo e la cooperazione.
La Soka Gakkai partecipa all’evento con una delegazione internazionale: insieme al presidente dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai Alberto Aprea sono presenti, tra gli altri, Hirotsugu Terasaki, vice presidente della Soka Gakkai, Robert Harrap, SGI Europa, Anne-Marie Tschabold, SGI Europa e Enza Pellecchia, Fondazione Be The Hope.
Il Sindaco di Roma, Roberto Gualtieri ha aperto i lavori portando il saluto di Roma Capitale a questo prestigioso incontro dedicato alla pace. «La pace è la più alta vocazione di Roma» ha affermato. «Ed è importante che, in tempi così difficili, dalla nostra città – che è il centro della Chiesa cattolica e dove convivono pacificamente culture e fedi diverse – continui a levarsi la voce in favore dell’amicizia, della comprensione e della solidarietà tra i popoli. Non ci rassegneremo mai all’idea che la guerra possa divenire uno strumento di regolazione delle controversie internazionali. Conosciamo la complessità e la fatica di ogni percorso di costruzione. Ma siamo qui per dire che, se si guarda il mondo con onestà, non c’è nulla di più realistico dell’impegno per la pace. È l’unica via che possa assicurare un futuro di sicurezza e dignità per tutti».
Andrea Riccardi, storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, nel suo intervento ha parlato del “coraggio del dialogo per spegnere la guerra”. «Siamo in un momento inquieto, tra gravi preoccupazioni e speranze per la soluzione di uno dei più drammatici conflitti del nostro tempo», ha affermato. «Lo spirito di Assisi soffia ancora, nonostante i venti di guerra. Le religioni hanno una forza di dialogo, disarmata ma convincente, da mettere in campo, con tutti, per realizzare la transizione, così necessaria, dall’età della forza all’età del dialogo e del negoziato.
Il dialogo non è ancora la pace, ma il riconoscimento che l’altro fa parte del mio futuro. Il dialogo vuol dire “mai senza l’altro”. Disintossica un mondo “preso dal gusto della potente droga della guerra, che rende dipendenti” -scrive Hedge, grande corrispondente di guerra. La droga obnubila e fa dimenticare quant’è necessaria la pace. La guerra è l’estremismo della polarizzazione, quella realtà che lacera la società e persino la democrazia. Dall’età della forza e della guerra all’età del dialogo e del negoziato: su questa svolta dobbiamo far sentire il nostro peso. (…) La gabbia, in cui siamo è il pessimismo. Il pessimismo ci fa rinunciatari e ci spinge al pensiero che il mondo sia perduto dietro ai suoi demoni, che non c’è un grande disegno e conviene salvare solo se stessi. Paul Ricoeur diceva: “per radicale che sia il male, non è così profondo come la bontà. E la religione, le religioni, hanno un senso, cioè liberare il fondo di bontà degli uomini e andarlo a cercare dov’è nascosto”».
«Questo è osare la pace – ha concluso Riccardi – liberare il fondo di bontà, che è volontà di pace e di vivere insieme. Questa è la nostra forza che ci fa passare dall’età della guerra all’età del dialogo e del negoziato. Fare la pace non è la magia di un giorno, ma, quando comincia il dialogo, già si gusta il sapore della pace. Perché dialogare è scoprire l’altro come sé stesso. Noi vogliamo cominciare il dialogo prima che un altro compagno muoia».
In seguito il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto affermando che «la pace va cercata, coltivata e “osata”, per citare l’evocativo titolo scelto quest’anno. Come ha ricordato Sua Santità Leone XIV, “serve disarmare gli animi e disarmare le parole per poter realmente favorire la pace”. Faccio mio il suo appello di pochi giorni fa, in occasione della visita al Quirinale, affinché si “continui a lavorare per ristabilire la pace in ogni parte del mondo e perché sempre più si coltivino e si promuovano principi di giustizia, di equità e di cooperazione tra i popoli, che ne sono irrinunciabilmente alla base”». Cosa ci induce a usare immani risorse per bruciarle sull’altare della guerra e non, invece, per costruire la pace? Questo dobbiamo domandarci, ha affermato Mattarella. Occorrono cambiamenti radicali nella mentalità e nella condotta prescelte. «Certo, per la pace occorre grande coraggio e molto lavoro, ma la pace conviene, la pace è vita, è sviluppo (…). Oggi il coraggio di osare la pace assume un valore ancora più prezioso. Le notizie giunte nei giorni scorsi da Gaza, dopo gli accordi di Sharm El-Sheikh, con i primi passi di intesa tra le parti in conflitto in Medio Oriente e con il rilascio degli ostaggi, ci ricordano che i processi di pace hanno bisogno di perseveranza, di pazienza, di lavoro di mediazione, di assunzione di responsabilità.
Istituzioni, diplomazie e numerosi altri “facilitatori di pace”, incluse le comunità religiose, svolgono quest’opera giorno dopo giorno, spesso lontano dai riflettori e senza ambire a superflui riconoscimenti esteriori. Tutti noi siamo oggi chiamati a rinnovare la nostra fiducia nella causa della pace. Rendiamo comune e condiviso l’appello di questo incontro: continuiamo a osare la pace. Continuiamo a investire in percorsi di dialogo e di mediazione, a sostenere chi soffre, a costruire ponti tra i popoli, per contribuire a un mondo in cui la pace non sia un sogno per illusi, ma una realtà condivisa. Quella realtà in cui, come ricordava Papa Francesco, “si riconosce la dignità di ogni essere umano, quando la fratellanza diventa principio ispiratore di un ordine internazionale più giusto e sostenibile”».
«Bisogna scegliere la pace – ha affermato con forza nel suo intervento il Cardinale Matteo Zuppi Arcivescovo di Bologna, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana – Combattere la guerra, le sue cause, tutto quello che la favorisce e la rende possibile. Osa la pace chi sceglie di cercarla, amarla, difenderla, costruirla nelle relazioni quotidiane e nella necessaria architettura della pace che regoli i rapporti tra le nazioni. Non sono i grandi che cercano la pace, ma gli umili. I grandi calcolano le convenienze. Gli umili sanno che la pace conviene a tutti. Solo gli umili compiono cose grandi. Spero che ci siano tanti umili che fanno cose grandi e tanti grandi che sanno scegliere la pace, perché si ricordano che sono umili. Mai più senza gli altri, mai più contro gli altri, mai più sopra gli altri. Per costruire la pace occorre disarmare i cuori – ha sottolineato ancora Zuppi – Osiamo la pace per garantire la sicurezza senza le armi. Non confondiamo mai sicurezza e guerra! Che tradimento è quando questo avviene! Le prime parole che ci ha rivolto Papa Leone hanno chiarito cosa è la pace e anche come la si raggiunge: “disarmata e disarmante”. Scegliere la pace significa disarmare il cuore da parole e gesti violenti, smaltire i semi di odio, pregiudizi, purificare la memoria, scegliere la giustizia e il perdono, perché solo se disarmati possiamo disarmare».
Intensa commozione ha suscitato la testimonianza di Kondo Koko, una sopravvissuta al bombardamento atomico di Hiroshima. Aveva solo otto mesi quando la bomba fu sganciata, il 6 agosto 1945. La sua casa si trovava a poco più di un chilometro dall’ipocentro. Troppo piccola per ricordare l’esplosione, racconta di essere cresciuta circondata dalle sue conseguenze: «Anche da bambina, sapevo che non dovevo chiedere cosa fosse successo. Ma capivo una cosa molto chiaramente: una sola bomba aveva reso orfani tanti bambini e sfigurato tante ragazze».
Crescendo, Kondo Koko ha portato nel cuore una profonda rabbia. Poi, dieci anni dopo il bombardamento, accadde qualcosa di inaspettato. Venne invitata negli Stati Uniti per partecipare a un popolare programma televisivo dove portarono sul palco un ospite a sorpresa: il capitano Robert Lewis, il copilota dell’Enola Gay, l’aereo che sganciò la bomba atomica su Hiroshima.
Kondo Koko racconta:
«Quando sentii il suo nome, mi bloccai. Era l’uomo che avevo odiato per così tanto tempo, l’uomo che avevo immaginato come un mostro. Ma quando lo guardai negli occhi, vidi qualcosa di completamente diverso. Era umano. Tremava e i suoi occhi erano pieni di dolore. Quando il conduttore gli chiese come si sentiva dopo il bombardamento, lui rispose sommessamente: “Mio Dio, cosa abbiamo fatto”.
In quel momento, tutto dentro di me cambiò. Capii che se avessi continuato a odiarlo, avrei soltanto continuato a odiare la violenza che è dentro tutti noi. Dopo la fine dello spettacolo, mi feci strada tra la folla, come un piccolo granchio, e mi avvicinai a lui. Gli toccai la mano e dissi nel mio cuore: “Mi dispiace”. Non so esattamente perché ho detto quelle parole, ma sapevo che erano sincere. Quel semplice momento è diventato uno dei più importanti della mia vita. È stato il momento in cui l’odio ha cominciato a trasformarsi in comprensione. Ma il capitano Lewis mi ha insegnato qualcosa di fondamentale: è la guerra che dovremmo odiare, non le persone.
Questo non significa dimenticare ciò che è successo, ma rifiutarsi di trasmettere il dolore alla generazione successiva. Perché in ogni guerra sono i bambini a soffrire di più. Sono loro che perdono le loro case, le loro famiglie e il loro futuro. Nessun bambino, in nessun luogo, che sia Hiroshima, l’Ucraina, Gaza o qualsiasi altro posto, dovrebbe mai più vivere un dolore simile.
Ecco perché oggi parlo, non come vittima, ma come testimone. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo cambiare il modo in cui lo ricordiamo. Possiamo ricordarlo con compassione, non con odio. E possiamo scegliere un futuro senza armi nucleari. Facciamo in modo che ciò che è accaduto a Hiroshima non si ripeta mai più, in nessun luogo e per nessuno».






