Paura di vivere, paura di morire – Intervista a Riccardo Venturini – Psicofisiologo, buddista mahayana

Paura di vivere, paura di morire – Intervista a Riccardo Venturini – Psicofisiologo, buddista mahayana

Laureato in Filosofia e in Medicina, Riccardo Venturini è stato professore ordinario di Psicofisiologia clinica nell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. La sua formazione lo ha portato ad assorbire, da un lato, gli
 insegnamenti dell’idealismo italiano, dell’esistenzialismo francese e del marxismo gramsciano; dall’altro, quelli della psichiatria fenomenologica e della scuola psicanalitica di Parigi. Dedicatosi agli studi psicofisiologici, ha svolto ricerche in campo clinico e sperimentale seguendo la tradizione fisiologica russa di Pavlov, Bykov, Anochin, Sudakov, autori di cui ha anche curato la traduzione italiana di varie opere. Da anni si occupa prevalentemente dello studio degli stati di coscienza e dei livelli di vigilanza, sia nel contesto della psicologia occidentale che in quello delle psicologie tradizionali orientali. Pratica e insegna la meditazione buddista mahayana, le cui tecniche ha appreso sotto la guida di maestri occidentali e orientali. Attualmente è interessato all’interpretazione, nei termini della psicologia transpersonale, delle tecniche di meditazione e di preghiera.
Impegnato nel dialogo interreligioso, è stato garante della Fondazione Maitreya e co-presidente della sezione italiana della World Conference on Religion and Peace. Dirige il Centro di cultura buddhista e coopera con movimenti buddisti giapponesi.
Quando a qualcuno di noi è venuta l’idea di intervistare Riccardo Venturini sul tema della paura e del coraggio c’è stato un coro di sì e una cornice di visi sorridenti intorno al tavolo della riunione, come di chi ha trovato l’idea giusta. Professore di Psicofisiologia, e dunque esperto di processi che stanno all’incrocio tra “corpo” e “psiche”, nonché studioso e praticante il Buddismo mahayana: chi meglio di lui poteva aiutarci a capire il ruolo della paura nella sfera emotiva umana, il modo di trattarla ed eventualmente di utilizzarla?
A coronamento di una fitta corrispondenza elettronica, di telefonate e della lettura di un lavoro del professore già in corso sul tema, siamo riusciti – anche senza aver potuto incontrarci fisicamente – a redigere questa intervista. Con il proposito reciproco di collaborare ancora e più direttamente nel futuro.

Da dove nasce la sua attenzione per il tema della paura?

Nasce dal mio interesse per le aree di frontiera tra il biologico e il mentale, tra la natura e la cultura, che rappresentano altrettante “sfide” per una disciplina come la psicofisiologia clinica, chiamata a esaminarle e gestirle a partire dal vissuto personale.
E una di tali aree è proprio quella della paura: immiserita nelle trattazioni “scientifiche” ordinarie, essa esige invece di essere immaginata, analizzata e problematizzata attraverso l’incontro di riflessioni cliniche, storiche, artistiche, spirituali, linguistiche, etc. Essa costituisce, infatti, una preziosa occasione di approfondimento personale e professionale, consentendo sia di affrontare lo studio della condotta normale o disfunzionale sia di offrire una prospettiva dalla quale è possibile riconsiderare l’insieme dei disturbi della condotta.

Un aspetto dunque quasi “onnipresente”?

Sicuramente la paura è una emozione/sentimento che accompagna molte (o tutte, se ne consideriamo anche gli aspetti latenti) delle operazioni in cui si articola la condotta, trasformandosi spesso da fondamentale indicatore di salvaguardia a fattore di stress e di patologia, poiché la paura della sofferenza e degli aspetti “negativi” della vita, motivando condotte di fuga, diviene spesso occasione di ulteriori e più profonde sofferenze. E non solo a livello individuale: come dice il grande storico J. Delumeau, la paura e il bisogno di sicurezza ci consentono una comprensione della condotta umana, individuale e collettiva, più profonda di quanto non ci permettano altre categorie, come, per esempio, il concetto di libido.
Se la fenomenologia della paura, che assume espressione in numerose “figure”, si presenta molto ampia, altrettanto ampio è il campo di studio di essa, caratterizzato dalla interazione di discipline diverse (dalla psicologia fisiologica all’antropologia, dalla psicopatologia allo studio dei sistemi di pensiero e delle mentalità, alla storia dei costumi, etc.) e dalla compresenza di molteplici modalità e strumenti di approccio (come quelli della psicometria, delle rappresentazioni sociali, della linguistica, dei costrutti personali, etc.): di qui la necessità, per “aprire” il costrutto ai differenti livelli in cui si manifesta, di impiegare la più ampia “utensileria” disponibile.

 

Lei ha intitolato un suo recente lavoro sul tema della paura con una sintesi molto efficace: “Paura di vivere, paura di morire”. Può approfondire questo punto di vista?

Guardando alla nostra vita nella sua interezza, tutto è cominciato con una scena in cui noi eravamo assenti e tutto quanto ci riguarda si concluderà in una scena che – quando sarà compiuta – non riguarderà più noi. A partire da lì, due grandi paure attraversano la nostra esistenza: la paura di vivere (della precarietà, dei pericoli e delle sofferenze della vita) e la paura di morire (di essere cancellati nell’insignificanza o di venire puniti da un inesorabile giudice trascendente). Tra queste due scene fondamentali, tra questi due eventi capitali ecco configurarsi il ponte del desiderio e dell’amore, con le nostre paure del desiderio e nel desiderio. La storia della cultura è in gran parte la storia dell’elaborazione di strategie per sconfiggere, manipolare, convivere con la paura. Le narrazioni esemplari (o mitiche) che le grandi tradizioni ci offrono sulla vita e sulla morte possiamo quindi leggerle come un racconto sulle nostre paure.

 

Lei dice: tra la nascita e la morte, c’è il ponte del desiderio e dell’amore, con la paura del desiderio e nel desiderio. Una lettura sugggestiva che verrebbe voglia di approfondire.

Poiché la vita si scopre precaria, incerta, insufficiente o troppo piena di insopportabili sofferenze, si può arrivare ad aver paura di vivere, e, paradossalmente, si può vivere “al risparmio” o perfino rinunciare a vivere perché vivere si rivela pericoloso e angoscioso. All’altro estremo, la paura della morte, simbolo di tutte le vulnerabilità che limitano e minacciano l’individuo e la sua vita. Paura di vivere, paura di morire e, tra esse, paura di amare, esprimono, in sintesi, le fondamentali e universali manifestazioni di questo sentimento.

Come possiamo definire la paura?

Nell’ambiguo statuto riservato alla paura nelle trattazioni psicologiche, si riflettono e si esprimono le incertezze legate al campo semantico del termine. Nella sua forma più generale, seguendo il Webster’s Int. Dictionary of the English Language, possiamo dire che «la paura è uno stato emotivo spiacevole, caratterizzato dalla anticipazione di dolore, sofferenza o forte disagio, accompagnato da un’esaltata attività neurovegetativa».
Nel Traité de psychologie (1923-24) curato da Georges Dumas (forse l’ultimo dei trattati in cui troviamo ancora presente un capitolo abbastanza ampio sulla vita affettiva, e che include anche il sentimento sociale, religioso e morale), si sottolinea che la definizione della paura come reazione causata dalla rappresentazione di un dolore o di un male possibile fu giustamente criticata da chi rilevava come tale definizione non sia applicabile alle forme innate e istintive della paura, non attribuibili cioè ad alcuna esperienza individuale e riscontrabili anche nei piccoli degli animali.
Dumas osserva ancora che «l’emozione della paura, come l’emozione della gioia e l’emozione della tristezza, si presenta, dal punto di vista soggettivo, sia sotto una forma passiva sia sotto una forma attiva. Nella forma passiva, quando la paura è intensa, il soggetto presenta unitamente alla rappresentazione chiara o confusa, astratta, schematica, ma particolarmente intensa del pericolo, un’anestesia della sensorialità e della sensibilità [generale], una ottusità, una mancanza di coordinazione di tutte le funzioni mentali superiori. Nella forma attiva, quando la paura è intensa, si possono constatare gli stessi fenomeni di ossessione, di anestesia, di ottusità, di mancanza di coordinazione mentale, con in più dei movimenti insensati di fuga e talora così poco oculati che possono condurre l’individuo a perdersi, come nei ben conosciuti casi di panico. Può d’altra parte accadere che queste due forme di emozione si succedano a breve intervallo nello stesso soggetto, come [accade] nelle forme corrispondenti della tristezza e della gioia. Può darsi infine che esse si mescolino e che la tendenza alla fuga, benché presente e forte, sia annullata dalla debolezza e dall’impotenza motoria; ma le due forme possono esistere l’una senza l’altra e il senso comune le ha distinte da tempo, poiché parla di paura che taglia le gambe e di paura che mette le ali [ai piedi]» (vol. I, p. 474).

In un suo recente articolo distingue la paura-emozione dalla paura-sentimento. Ci spiega il significato di questi termini?

Quando cerchiamo di definire la paura constatiamo che il termine copre una doppia (o plurima) realtà emozionale, per cui una prima distinzione che si impone è quella tra la paura-emozione (reazione affettiva violenta e di breve durata, denominata anche panico, spavento, sgomento, terrore) e la paura-sentimento (meno violenta e più durevole, in cui rientra ciò che chiamiamo timore, preoccupazione, angoscia, ansia, apprensione, inquietudine, fino alle sfumature della precauzione e della timidezza). Se la paura-emozione viene collocata nel quartetto affettivo ormai quasi universalmente accettato di piacere, dolore, rabbia e paura, una trattazione della paura-sentimento è ormai quasi introvabile nella manualistica della psicologia che si vuole “scientifica”.
Il linguaggio ci indica tuttavia che i numerosi termini che si riferiscono a questo stato emotivo non sono puri sinonimi, ma rimandano a realtà affettive diverse, in cui la più importante distinzione è appunto quella che ho differenziato con le espressioni paura-emozione e paura-sentimento.
La paura-emozione è dunque uno stato affettivo legato all’incertezza circa la soddisfazione dei bisogni “elementari”, mentre la paura-sentimento è legata sia alle nostre condotte relazionali sia ai bisogni specificamente umani, nel cui contesto troviamo la paura della separatezza, il bisogno di senso, il timore nei confronti del destino ultimo dell’essere umano e, di conseguenza, anche le strategie di rassicurazione di natura spirituale e religiosa.
Come abbiamo visto, il linguaggio e l’esperienza vissuta ben distinguono il livello delle reazioni emotive da quello dei sentimenti: vivaci e transitorie risposte a situazioni-stimolo, le prime; più tenui e duraturi, e legati alla struttura della personalità, i secondi, ricordando anche che si parla di “umore” quando vogliamo indicare la tonalità affettiva di fondo della personalità.

Avere paura è un segno di debolezza?

Dobbiamo intenderci: certo la paura è una emozione/sentimento connessa con la condizione di precarietà e insufficienza proprie della nostra esistenza, ma consideriamo patologica quella paura che paralizza la nostra azione e compromette il nostro equilibrio, non diversamente da quanto accade al dolore che si tramuta in depressione.

 

La paura può avere una valenza positiva?

Parlando sempre delle forme “sane” di paura, possiamo rispondere positivamente se sappiamo cogliere i segnali che vengono dal nostro corpo e ci indicano situazioni conflittuali, le quali, per essere superate, richiedono proprio l’utilizzazione della paura per operare coraggiose scelte.

 

Molte delle paure che attanagliavano i nostri avi ora non ci spaventano più. In compenso, ne sono nate altre. Ci sono quindi anche paure collettive legate alle epoche e alla cultura?

Poiché il comportamento individuale si inscrive in quello di gruppo, accanto a quelle individuali vanno sempre considerate le paure collettive, di un gruppo specifico o di tutta una società, a loro volta proprie di una determinata epoca o perduranti nel corso di secoli e di millenni. Oggi lo scenario sociale è dominato dalle grandi paure delle guerre, delle catastrofi nucleari, del terrorismo, dell’inflazione demografica, delle conseguenze dei flussi migratori incontrollati, dell’erosione dei valori e dei legami tradizionali, dei rischi legati alle nuove tecnologie, paure sul cui sfondo si generano e si esprimono le ansie e i timori personali.
Gli aspetti appresi delle paure non risultano infatti interamente comprensibili senza lo studio dei più ampi scenari in cui queste si collocano, essendo proprio essi a dare rilievo storico e culturale alle emozioni individuali. I modi in cui le persone di un dato tempo vivono, pensano, sentono, regolano i rapporti tra loro, con la natura e con l’Assoluto si rivelano dunque non meno importanti delle storie individuali. Le distanze tra storia e scienze umane sembra che stiano accorciandosi, ma siamo appena agli inizi di un cambiamento di paradigma che ci auguriamo possa portare alla fondazione di una “psicologia culturale” avente come oggetto lo studio delle “mentalità” e che sia capace di costruire delle “biografie sociali”, valide a soddisfare un bisogno che, se ha trovato una prima espressione in quanto esigenza di portare alla coscienza ciò che è nascosto nell’inconscio dell’individuo, richiede ora di far emergere ciò che è nascosto nella memoria collettiva.

 

Conoscere se stessi può aiutare a vincere la paura?

L'”oggetto” dello psicologo clinico è la condotta umana concreta dell’individuo impegnato a soddisfare i propri bisogni e realizzare le proprie potenzialità ossia, con una parola sola, a raggiungere la propria autorealizzazione. A questo traguardo non si arriva con facilità o per mezzo di scorciatoie, ma è necessario, per raggiungerlo in modo significativo (cioè coltivato, “adorno” di conoscenza e di affinata sensibilità), sostare nei “purgatori” della scuola, della psicologia, della medicina…, ove purgatorio non è (solo) qualcosa di negativo, ma luogo di purificazione e tappa importante (lungo una via di maturazione e di salvezza). Nessuno degli strumenti che l’esperienza e la cultura offrono alla nostra consapevolezza va infatti trascurato, perché è nella consapevolezza che possiamo progressivamente ridurre (e forse eliminare) quell'”ignoranza” della nostra vera natura, che ci fa vivere costantemente col timore di quel che si può perdere e di quel che può accadere, attualizzando la ben nota catena di minaccia, paura, avversione e attaccamento. Al contrario, essere consapevoli è «vedere dall’interno la natura originaria e non divenire confusi», come diceva il VI patriarca dello Zen, non diversamente da Walter Benjamin, per il quale «essere felici significa essere consci di sé senza terrore; rendere coltivabili i territori su cui finora cresce solo la follia; penetrare con l’ascia affilata della ragione, senza guardare né a destra né a sinistra, per non cadere in preda dell’orrore, che attira a sé dal fondo della foresta primordiale».

 

Da un certo punto di vista, potremmo dire che le religioni nascono per vincere la paura.

Certamente, ma in modi differenti. Attraverso le religioni l’umanità ha cercato di gestire e vincere le angosce immediate o quelle remote e le tradizioni hanno spesso offerto una sorta di interruttore generale che consentisse di spegnerle alla radice. Di qui la raccomandazione di non pre-occuparsi, cercando di vivere come il bodhisattva, che nulla teme, o come gli uccelli dell’aria e i gigli dei campi, che si affidano alla Provvidenza.
San Francesco esortava a realizzare, di fronte a paure, disagi e umiliazioni, quella “perfetta letizia” che non è passiva sopportazione ma accoglienza attiva di tutto ciò che accade, nella consapevolezza che esso è “voluto” da una più ampia “Volontà”, in cui, di cui e per cui noi stessi viviamo.
Dobbiamo tuttavia osservare che le religioni si declinano nella storia, in un rapporto dialettico con le culture in cui vivono, dacché, come troviamo scritto in un documento dell’Unesco, «le culture danno alle religioni il loro linguaggio e le religioni offrono il significato ultimo a ciascuna cultura».
Qualcuno, come Victor Hugo, poteva affermare (nel suo testamento): «Io credo, ecco tutto. La massa ha gli occhi deboli. È affar suo. I dogmi e le pratiche sono occhiali che fanno vedere le stelle a chi ha la vista corta. Io vedo Dio a occhio nudo», ma resta il fatto che tra la sponda delle illusioni e della sofferenza e quella del nirvana e della pace le religioni si offrono come indispensabili traghetti, in un processo di progressiva purificazione che va dal ricorso a un Dio immediatamente soccorritore a un Dio salvatore, in quanto donatore di senso.
Secondo la dottrina buddhista, la realtà ultima è rappresentata dalla inesprimibile “vacuità” e, come ci ricorda Nagarjuna, «l’insegnamento del Dharma da parte dei vari Buddha è basato sulle due verità: la verità relativa del mondo e la Verità ultima. Coloro che non discernono la differenza tra queste due verità non discernono la natura profonda dell’insegnamento del Buddha. [Ma] la Verità assoluta non può essere espressa senza appoggiarsi sull’ordine pratico delle cose. Senza intendere la Verità assoluta, il Nirvana non può essere raggiunto».
Ma se le religioni offrono delle strategie di controllo e di superamento della paura, non si può non ricordare che esse (come era già stato ben compreso da molte delle scuole di saggezza del mondo classico) possono divenire a loro volta dei generatori di paure e di malessere quando, invece di indicare e facilitare il percorso lungo il cammino di liberazione, lo ingombrano con ostacoli (costituiti da dogmi, divieti, minacce) che producono intralci a volte insuperabili. Un discorso a parte richiederebbero poi le religioni come istituzioni sociali e cioè strutture gerarchizzate attraverso le quali possono venire esercitati potere, censure, manipolazioni.

 

Qual è il contributo particolare che può offrire il Buddismo?

Riguardo al controllo della sofferenza e della paura ritengo che sia possibile individuare quattro tipi di strategie, a volte messe in atto in alternativa a volte contemporaneamente.
Molto brevemente, la prima è quella della rimozione (oggi, ad esempio, si tende quasi sempre a dire che si muore per qualche malattia, dunque potenzialmente curabile, e mai di… mortalità). La seconda è quella attiva o attivistica (ci si adopera per risolvere il problema attraverso tutti i sistemi di protezione che sappiamo escogitare); la terza è quella illusoria (che riposa sulle utopie politiche o sull’attesa di una felicità ultraterrena); la quarta è quella dell’assunzione di responsabilità. E qui possiamo collocare il messaggio buddhista.
In esso si compie infatti una sorta di salto mortale, operando prima uno spostamento dal piano della realtà ordinaria (samsara) a quello della Realtà assoluta (infinito, sacro, mistero) e, come tale, “altra” rispetto al mondo fenomenico perché non-duale, non-effimera, priva di determinazioni e quindi identificabile come Vacuità, Nirvana, Realtà ultima; e successivamente, per così dire, un ritorno al mondo finito, in una visione unificante riassunta dalla rivoluzionaria formula mahayana: «Il Nirvana coincide col samsara».
In altri termini, i fenomeni sono visti come ierofanie (rivelazioni del sacro) in senso forte, in quanto costitutivi e non accessori di quella Realtà assoluta non-trascendente e non-separata che nei fenomeni è, vive e si realizza come Assoluta assolutezza non contrapposta dualisticamente al finito («La Vacuità è forma; la forma è Vacuità»). Il sacro, inteso come il non-ordinario o il non-profano, è pertanto visto come la grande forza della Vita inerente al cosmo: esso non è separato dal mondo (il sacro si esprime nel profano!) ed è presente, come natura-di-Buddha (o essenza), nella totalità degli esseri e nella vita stessa del praticante. Il processo di trasformazione dei desideri terreni in desiderio di illuminazione sintonizza la nostra vita individuale col ritmo del cosmo e il piccolo sé col grande Sé, sulla base dell’unità della mente umana e della Vita cosmica per cui, secondo la formula della scuola Tendai, «tremila mondi in un momento della mente; un momento della mente permea la Realtà universale».
Il Buddha e i Bodhisattva o il Gohonzon-mandala di Nichiren, in questa prospettiva, non sono idoli o immagini di divinità rassicuranti e soccorritrici, ma una sorta di mezzi di riflessione speculare: rappresentando lo stato di perfetta realizzazione essi agiscono come catalizzatori del cambiamento interiore e dell’impegno a sviluppare le parte migliori di noi stessi.
La liberazione dalla sofferenza e dalla paura si realizza dunque progressivamente non invocando un aiuto esterno ma con un processo di congiungimento e identificazione con quanto “eccede” o trascende il debole, illusorio, irredimibile io separato. La progressiva interiorizzazione della pratica religiosa trova qui il suo compimento: superata la distanza tra l’io individuale e la realtà ultima, la coscienza – resa transpersonale – diviene luogo di autoriflessione della mistica forza della vita cosmica, punto in cui l’Essere si svela, nel suo intimo, come totale e trasparente pienezza.

a cura di Marina Marrazzi e Lodovico Prola – Buddismo e Società n.104 – Maggio Giugno 2004

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