Harvard University, Cambridge (Usa), 24 settembre 1993
Ho il grande piacere di tornare all’Università di Harvard per parlare con i membri della facoltà e gli studenti di questo ateneo, eccelso nel suo impegno accademico e ringrazio i professori che hanno reso possibile questa mia visita.
Eraclito fu il filosofo greco che dichiarò che tutte le cose fluiscono e che il cambiamento è la natura fondamentale della realtà. In effetti, qualsiasi cosa che appartenga al regno dei fenomeni naturali o a quello degli affari umani cambia continuamente. Nulla rimane esattamente nello stesso stato, neanche per un breve istante; anche i sassi e i minerali, apparentemente più solidi, sono soggetti agli effetti erosivi del tempo. Ma durante questo secolo di guerre e rivoluzioni, sembra che il flusso del cambiamento abbia subito un’accelerazione macroscopica. Siamo stati spettatori del più straordinario panorama di trasformazioni sociali della storia.
Il termine buddista per designare l’aspetto effimero della realtà è la «transitorietà di tutti i fenomeni» (shogyo mujo in giapponese). Nella cosmologia buddista, questo concetto è descritto come i cicli ripetuti di formazione, continuazione, declino e disintegrazione attraverso i quali devono passare tutti i sistemi. Durante la nostra esistenza come esseri umani, facciamo esperienza della transitorietà sotto forma delle quattro sofferenze: la sofferenza della nascita (e dell’esistenza giorno dopo giorno), quella della malattia, quella dell’invecchiamento e, infine, la sofferenza della morte. Nessun individuo è esente da queste fonti di dolore. Fu proprio l’angoscia dell’uomo, in particolare rispetto al problema della morte, che portò alla formazione dei sistemi filosofici e religiosi. Si dice che Shakyamuni fosse spinto alla ricerca della verità dal suo incontro accidentale con la sofferenza, al di fuori dei cancelli del palazzo in cui era cresciuto. Platone afferma che i veri filosofi sono sempre impegnati nella pratica della morte, mentre Nichiren, fondatore della scuola buddista di cui sono seguaci i membri della Soka Gakkai Internazionale, ci esorta a «studiare per prima cosa la morte e poi le altre questioni». (1)
La morte pesa sul cuore dell’uomo come un richiamo inevitabile alla natura finita della nostra esperienza. Per quanta ricchezza o potere possiamo raggiungere, la realtà della nostra dipartita non può essere evitata. Fin dai tempi antichi, l’umanità ha cercato di superare la paura e l’ansia che circondano la morte con la ricerca di un modo con cui essere partecipi dell’eterno. Attraverso questa ricerca, le persone hanno appreso a superare la predominanza delle modalità istintuali di sopravvivenza e hanno sviluppato le caratteristiche che noi riconosciamo come unicamente «umane». In questa prospettiva si può vedere come la storia della religione coincida con quella dell’umanità.
La civiltà moderna ha tentato di ignorare la morte: tendiamo a distogliere lo sguardo da questa preoccupazione fondamentale mettendola da parte. Per molti al giorno d’oggi la fine della propria esistenza è pura assenza di vita; è mancanza; è vuoto. La vita è identificata con tutto ciò che è bene: con l’esistenza, la razionalità e la luce. Al contrario, la morte è percepita come il male, il nulla, come l’oscurità e l’irrazionalità. Nei suoi confronti prevale solo la percezione negativa.
Tuttavia, non si può ignorare questa ineluttabile realtà e se si cerca di farlo lo si paga a caro prezzo. La civiltà moderna dei nostri tempi si è paradossalmente evoluta in ciò che può essere definito con le parole di Zbigniew Brzezinski come il «secolo della megamorte». Ma oggi una vasta gamma di questioni ci spinge a un riesame e a una rivalutazione del significato della morte. Esse includono argomenti quali la morte cerebrale e la dignità nel morire, la funzione degli ospizi, stili e rituali funerari, e la ricerca a tale proposito da parte di studiosi come Elizabeth Kübler-Ross.
Siamo finalmente pronti a riconoscere l’errore fondamentale nella nostra concezione della vita e della morte. Stiamo comprendendo che quest’ultima è qualcosa di più che semplice assenza di vita, che sia la morte sia la vita attiva sono necessarie alla formazione di un quadro più ampio, più essenziale. Quest’ultimo riflette la continuità profonda della vita e della morte che sperimentiamo come individui e che esprimiamo come cultura. Una sfida centrale del secolo che sta per iniziare sarà la costruzione di una cultura basata su una comprensione della relazione tra la vita e la morte e dell’eternità essenziale della vita. Questo atteggiamento non disconosce la morte, ma vi si confronta e la pone entro il contesto più ampio dell’esistenza.
Il Buddismo parla di una natura intrinseca (hossho in giapponese, a volte tradotto con «natura del Dharma»), presente nella profondità della realtà fenomenica. Questa natura dipende e risponde alle condizioni ambientali e si alterna tra stato manifesto e stato latente. Tutti i fenomeni, incluse la vita e la morte, possono essere considerati come elementi del ciclo di manifestazione e latenza. Il ciclo di vita e morte può essere paragonato a quello in cui si alternano il sonno e la veglia. In modo analogo al sonno, che ci prepara all’attività del giorno che segue, la morte può essere vista come uno stato in cui riposiamo e ci rigeneriamo per una nuova esistenza. Sotto questa luce, essa dovrebbe essere riconosciuta, come la stessa vita, come una benedizione da apprezzare. Il Sutra del Loto, cuore del Buddismo Mahayana, afferma che lo scopo dell’esistenza, dell’eterno ciclo di vita e di morte, è quello di essere «felici e a proprio agio». (2) Esso insegna anche che una forte fede e una forte pratica ci rendono in grado di sperimentare una gioia profonda e duratura nella morte come nella vita e di essere «felici e a proprio agio» in entrambe. Nichiren descrive il raggiungimento di questo stato come la «gioia delle gioie». (3)
Le tragedie di questo secolo di guerre e rivoluzioni hanno insegnato che è folle credere che la riforma di fattori esterni come i sistemi sociali sia l’elemento chiave per essere felici. Sono convinto che nel secolo a venire si debba riporre maggiore enfasi sul cambiamento interiore. Inoltre i nostri sforzi devono seguire la scia di una nuova comprensione della vita e della morte.
Vi sono tre aree molto vaste in cui il Buddismo Mahayana può aiutare a risolvere i problemi precedentemente trattati e fare la differenza per la civiltà del XXI secolo. Prendiamo in considerazione gli aspetti di questa filosofia che offrono una guida pratica e costruttiva.
Fin dai suoi inizi, il pensiero buddista è stato associato alla pace e al pacifismo. Tale tendenza deriva principalmente dal costante rifiuto della violenza, unito a un’enfasi sul dialogo e sulla discussione quali strumenti idonei di risoluzione dei conflitti. Le descrizioni della vita di Shakyamuni ne forniscono un buon esempio. La sua esistenza fu libera dal dogma e le sue interazioni con i seguaci evidenziano l’importanza del dialogo. Un sutra che narra dei viaggi al culmine della sua pratica buddista inizia con un episodio in cui Shakyamuni, ormai avanti negli anni, utilizza il potere del linguaggio per prevenire un’invasione. (4)
Secondo questa scrittura, Siddharta, allora ottantenne, non ammonì direttamente il ministro di Magadha, un vasto paese propenso alla conquista del vicino stato di Vajji. Al contrario, egli parlò dei principi per cui le nazioni prosperano o declinano. Il suo discorso dissuase il ministro dal rendere effettivo l’attacco già pianificato. Il capitolo finale dello stesso sutra si conclude con una commovente descrizione di Shakyamuni sul letto di morte. Mentre giace ormai prossimo alla sua dipartita, egli esorta più volte i discepoli a esprimere le proprie incertezze relative alla Legge (il Dharma) o alla pratica buddista, così da non ritrovarsi, dopo la sua morte, ad avere rimpianti per le domande mai poste. Fino al suo ultimo respiro, Shakyamuni cercò attivamente il dialogo e il dramma del suo ultimo viaggio, dall’inizio alla fine, è illuminato dalla luce del linguaggio, esercitato abilmente da chi può essere definito un vero «maestro delle parole». Perché Shakyamuni era in grado di usare il linguaggio con tale libertà e con simili effetti? Cosa lo rese un maestro impareggiabile nell’arte del dialogo? Credo che la sua bravura fosse dovuta all’immensità del suo stato di illuminazione, libero da qualsiasi dogma, pregiudizio e attaccamento. La citazione che segue è molto chiara: «Ho percepito una singola, invisibile freccia che trafigge i cuore delle persone». (5) La «freccia» simboleggia uno stato mentale prevenuto, un’enfasi irragionevole sulle differenze individuali. A quel tempo l’India stava attraversando un periodo di transizione e sommosse e gli orrori dovuti ai conflitti e alla guerra erano una realtà onnipresente. Allo sguardo attento del Tathagata, era chiaro che la causa profonda di tali disordini fosse l’attaccamento alle differenze etniche, nazionali, e così via.
All’inizio di questo secolo, Josiah Royce (uno fra i tanti filosofi di rilievo che l’Università di Harvard ha dato al mondo) dichiarò che: «La riforma, in simili questioni, deve provenire dall’interno… Il pubblico, nel suo insieme, è il risultato di tutto ciò che possono determinare i processi che avvengono, nel bene e nel male, nelle menti degli individui». (6)
Come mette in rilievo Royce, la «freccia invisibile» del male non è individuabile nell’esistenza delle razze e delle classi esterne a noi, ma è conficcata nel nostro stesso cuore. Il controllo sul pregiudizio, cioè il nostro stesso attaccamento alla differenza, è la conditio sine qua non per un dialogo aperto. Una tale modalità di discussione, a sua volta, è essenziale per l’affermazione della pace e il rispetto universale dei diritti umani. Fu proprio la sua mancanza totale di pregiudizio a permettere a Shakyamuni di esporre la Legge con una simile libertà, tanto da poter adattare il suo insegnamento al carattere e alla capacità delle persone cui si rivolgeva.
Nella mediazione di una disputa sull’uso dell’acqua, nel convertire un criminale violento o nel rimproverare qualcuno che obiettava sulla pratica dell’elemosina, il Saggio degli Shakya tentò sempre di rendere consapevoli le persone della «freccia» dentro di loro. Il potere del suo straordinario carattere mise queste parole sulle labbra di un sovrano, a lui contemporaneo: «Coloro che noi, con le armi, non riusciamo a sottomettere, tu li disarmi a mani nude». (7)
Soltanto quando supera l’attaccamento alle differenze una religione emerge da una visione prettamente tribale per offrire una fede globale. Nichiren, per esempio, definì le autorità dello shogunato, che lo stavano perseguitando, «governanti di questo piccolo arcipelago». (8) La sua visione era più ampia, diretta verso la formazione di uno spirito religioso che avrebbe incarnato valori universali e trasceso i confini di un singolo stato. Il dialogo non è limitato al dibattito formale o allo scambio tranquillo che si diffonde come una brezza primaverile. Vi sono momenti in cui, per rompere la morsa dell’arroganza, il confronto deve essere simile a una fiammata. Sebbene Shakyamuni e Nagarjuna siano associati alla dolcezza, fu per la severità delle loro parole che si meritarono il soprannome di «coloro che ricusano tutto», (9) nelle rispettive epoche.
Allo stesso modo, Nichiren, che dimostrò un affetto e una preoccupazione ineguagliabili per le persone comuni, non accettò mai il compromesso quando si confrontò con l’autorità corrotta. Disarmato nel Giappone violento del suo tempo, egli si avvalse soltanto del potere risoluto della persuasione e della nonviolenza. Fu tentato a rinunciare alla sua fede con la promessa del potere e fu minacciato della decapitazione dei suoi genitori se avesse continuato ad asserire il suo credo. Egli mantenne, comunque, il coraggio delle proprie convinzioni. Il seguente brano, scritto durante l’esilio in un’isola lontana da cui nessuno era mai tornato, trasmette tutta la sua forza: «Qualsiasi ostacolo io possa incontrare, fino a quando i saggi non proveranno che i miei insegnamenti sono falsi, non mi arrenderò mai!» (10)
La fede di Nichiren nel potere del linguaggio era assoluta. Il giorno in cui più persone dovessero perseguire il dialogo in un modo altrettanto incessante, i conflitti inevitabili, caratteristici della vita umana, sicuramente troverebbero una risoluzione più semplice. Il pregiudizio cederebbe la strada all’empatia e la guerra lascerebbe spazio alla pace. Il dialogo sincero deriva dalla trasformazione di punti di vista opposti in cui i dissapori, che allontanano le persone, diventano dei ponti che le uniscono.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Soka Gakkai, organizzazione fondata sugli insegnamenti di Nichiren, sfidò frontalmente le forze del militarismo nipponico. Di conseguenza, molti suoi membri furono imprigionati, a cominciare dal fondatore Tsunesaburo Makiguchi. Lungi dal ritrattare, Makiguchi continuò a spiegare alle sue guardie e agli inquirenti i princìpi del Buddismo, quelle stesse idee che lo avevano reso innanzitutto un «criminale del pensiero». Morì all’età di settantatré anni, in prigionia.
Josei Toda fu l’erede spirituale di Makiguchi e divenne il secondo presidente dell’organizzazione. Egli sopravvisse a due anni di carcere e si fece portatore della fede nell’unità della famiglia umana. Predicò tra le persone che avevano perso tutto e soffrivano per le conseguenze della guerra. Toda lasciò in eredità a noi, suoi giovani discepoli, la missione di costruire un mondo libero dagli armamenti nucleari. Con queste radici storiche e filosofiche, la Soka Gakkai Internazionale continua a impegnarsi nel dialogo per il progresso della pace, dell’educazione e della cultura. Oggi stiamo costruendo dei forti legami di solidarietà con i cittadini di centoquindici fra paesi e regioni di tutto il mondo. Da parte mia, desidero solo continuare nel mio sforzo di parlare con le persone di tutto il pianeta al fine di dare, nel mio piccolo, un contributo alla felicità, più ampia, di tutto il genere umano.
Quale ruolo può avere il Buddismo nel ripristino e nella rigenerazione dell’umanità? In un’epoca segnata da una diffusa rinascita della religione, ci dobbiamo domandare se questa rende le persone più deboli o più forti. Se essa incoraggia ciò che in loro è bene o male. Se le rende migliori o peggiori. Sebbene l’autorità di Marx, come profeta sociale, sia stata messa ampiamente in discussione dal collasso del socialismo nell’Europa dell’Est e nell’ex Unione Sovietica, vi è un’importante verità contenuta nella sua descrizione della religione come «l’oppio dei popoli». In effetti, vi è più di una ragione di cui preoccuparsi per il fatto che molte religioni, nate al crepuscolo di questo secolo, appaiono caratterizzate dal dogmatismo e dall’isolamento. Questi due tratti remano contro la progressiva tendenza verso l’interdipendenza e l’interazione tra le culture.
Tenendo ciò a mente, si può esaminare il relativo peso che sistemi fideisti differenti assegnano alla fiducia in sé, in opposizione alla dipendenza dai poteri esterni al sé. Queste due tendenze corrispondono in modo approssimativo ai concetti cristiani di libero arbitrio e grazia.
In generale, il passaggio dall’Europa medievale a quella moderna coincise con un allontanamento dal determinismo teistico, in direzione di una sempre maggior enfasi sul libero arbitrio e sulla responsabilità umana. Si incoraggiarono le capacità umane, ne conseguì il declino della fiducia nell’autorità astratta ed esterna e si aprì così la strada alle grandi conquiste della scienza e della tecnologia. Un numero sempre maggiore di persone iniziarono a credere nell’onnipotenza della ragione e dei suoi frutti scientifici.
Ma la convinzione cieca nel potere della tecnologia può far emergere la presunzione che non vi sia nulla che non siamo capaci di compiere. Può essere vero che la dipendenza dall’autorità esterna abbia portato gli individui a svilire sia il proprio potenziale sia la responsabilità personale, ma la fede eccessiva in noi stessi non è una risposta; questa ha, in effetti, prodotto una pericolosa sopravvalutazione dell’essere umano.
Siamo, ora, alla ricerca di una terza via, un nuovo equilibrio tra fede in noi stessi e il riconoscimento di un potere più grande di noi. Queste parole di Nichiren illustrano la prospettiva Mahayana, suggestiva e sottile, sul raggiungimento dell’illuminazione: «Né soltanto attraverso i propri sforzi… né soltanto attraverso il potere degli altri». (11) L’argomento che adduce il Buddismo è la convinzione che il bene più grande deriva dalla fusione dinamica e dall’equilibrio tra le forze interiori e quelle esteriori.
In modo simile, John Dewey, in Una fede comune, afferma che è la religiosità, piuttosto che le religioni, ad avere un’importanza vitale. Mentre le religioni cadono velocemente nel dogmatismo e nel fanatismo, la religiosità ha il potere di «unificare gli interessi e le energie», di «orientare l’azione», e «generare il calore delle emozioni e la luce dell’intelligenza». Allo stesso modo, la religiosità rende possibile la realizzazione di quei benefici che il celebre filosofo statunitense identifica come i «valori dell’arte in tutte le sue forme, della conoscenza, dello sforzo e del riposo dopo aver lottato, dell’educazione e dell’affinità, dell’amicizia e dell’amore, della crescita nella mente e nel corpo». (12) Dewey non identifica un potere esterno specifico. Secondo il suo pensiero, la religiosità è un termine generico per tutto ciò che è a sostegno e incoraggiamento delle persone nel perseguimento attivo del bene e del valore. La religiosità, come egli la definisce, aiuta chi si aiuta.
Come ha mostrato l’egotismo nei tempi moderni, senza un sostegno non siamo capaci di esprimere tutto il nostro potenziale. Soltanto nel momento in cui ci affidiamo e ci uniamo all’eterno siamo in grado di attivare appieno tutte le nostre capacità. Quindi, abbiamo bisogno di aiuto, ma il nostro potenziale umano non trae origine dall’esterno; esso è, ed è sempre stato, nostro e dentro di noi. Il modo in cui qualsiasi tradizione religiosa precostituita gestisce l’equilibrio tra forze interiori ed esteriori, credo, influenzerà in modo decisivo la sua vitalità. Chiunque sia coinvolto nell’ambito della religione deve impegnarsi, con costanza, nel mantenere questo equilibrio affinché la storia non si ripeta. Se non si presta attenzione, la religione può renderci schiavi del dogma e della sua autorità allo stesso modo in cui essa può servire da veicolo per la rigenerazione dell’essere umano.
Forse, proprio perché il nostro movimento buddista è centrato sull’uomo, il professor Harvey Cox l’ha descritto come «impegnato nella definizione di una direzione umanista della religione». In effetti, il Buddismo non è solamente un costrutto teoretico, ma serve a dare una direzione alla nostra esistenza, così come la stiamo vivendo, momento per momento, verso il raggiungimento della felicità e del valore. Pertanto Nichiren afferma: «Quando concentri gli sforzi di cento milioni di eoni in un singolo istante di vita, allora, le tre proprietà inerenti al Budda si manifesteranno in ogni tuo pensiero e azione». (13)
L’espressione «gli sforzi di cento milioni di eoni» si riferisce alla capacità di confrontarsi con i problemi della vita con tutto il nostro essere, e risvegliare così la nostra coscienza intera, senza lasciare inutilizzata nessuna potenzialità interiore. Quando si affrontano con tutto il cuore e in modo diretto le sfide della vita, emergono da dentro le tre «proprietà inerenti al Budda». La luce di questa saggezza interiore ci incoraggia e guida verso un’azione vera e corretta. I suoni vibranti dei tamburi, dei corni e di altri strumenti musicali che appaiono nel Sutra del Loto sono metafore per incoraggiare la volontà umana a vivere. La funzione della natura di Budda è sempre quella di far emergere la forza, il bene e la saggezza. Il messaggio del sutra è quello di una rigenerazione dell’essere umano.
Il Buddismo fornisce una base filosofica per la coesistenza simbiotica di tutte le cose. Tra le tante immagini nel Sutra del Loto, una delle più interessanti è quella della pioggia misericordiosa che cade ovunque, rivitalizza la terra in tutta la sua estensione e dà nuova vita agli alberi e alle piante, grandi e piccole. Questa scena, rappresentata con la vivacità, la magnificenza e la bellezza caratteristiche di questa scrittura, simboleggia l’illuminazione delle persone per effetto della Legge del Budda. Allo stesso tempo, si tratta di un tributo alla ricchezza e alla diversità degli esseri umani e delle altre forme di vita senzienti e non senzienti. Così, ogni cosa vivente manifesta l’illuminazione di cui è capace; ognuna contribuisce all’armonia del grande concerto della simbiosi. Nella terminologia buddista, queste relazioni sono definite con engi (origine dipendente). Nulla e nessuno vive in isolamento. Ogni essere individuale funziona con lo scopo di creare un ambiente che sostiene tutte le altre esistenze. Tutte le cose interagiscono con reciprocità a formare un cosmo vivente, quello che nei termini della filosofia moderna si potrebbe definire un «tutto semantico». Goethe diede voce a una visione simile nel suo Faust. «Come ogni cosa si tesse col tutto e l’una cosa vive e opera nell’altra!» (14) Questi versi colpiscono per la loro affinità con il pensiero buddista. Nonostante Johann Peter Eckermann abbia criticato Goethe per la «mancanza di conferma dei suoi presentimenti», (15) gli anni oramai trascorsi sono stati una conferma della visione deduttiva di Goethe come del pensiero buddista.
Prendiamo in considerazione, per esempio, il concetto di causalità. Se analizzate in termini di origine dipendente, le relazioni causali differiscono fondamentalmente dall’idea meccanicistica di causa ed effetto che, secondo la scienza moderna, ha il dominio sul mondo naturale obiettivo. Nel modello scientifico, la realtà è separata dalle questioni umane soggettive. Quando avviene un incidente o un disastro, per esempio, si potrebbe applicare una teoria meccanicistica della causalità per comprendere come sia avvenuto un simile evento. Ma questa fa passare sotto silenzio altri punti, come per esempio la questione per cui certi individui e non altri dovrebbero ritrovarsi in quel tragico fatto. In vero, il punto di vista meccanicistico della natura presume l’abbandono deliberato delle domande di tipo esistenziale.
Al contrario, la comprensione buddista di causalità è definita in modo più ampio e tiene conto dell’esistenza umana. Essa cerca di affrontare in modo diretto le incertezze più profonde, come fece Shakyamuni all’inizio del suo viaggio spirituale: «Qual è la causa della vecchiaia e della morte? La nascita è la causa della vecchiaia e della morte». (16) In tutt’altra epoca, attraverso un processo di profonda autoriflessione, T’ien-t’ai, fondatore dell’omonima scuola buddista, sviluppò una teoria che includeva concetti come i «tremila mondi in un singolo istante dell’esistenza». Non solo questa teoria è di vasta portata e rigorosamente elaborata, ma è anche compatibile con la scienza moderna. Mentre i limiti di tempo non consentono la discussione del suo sistema, vale la pena suggerire che molti ambiti di studio contemporanei – ad esempio l’ecologia, la psicologia transpersonale e la meccanica quantistica – presentano degli interessanti punti in comune con il Buddismo, per quanto riguarda sia il loro approccio sia le loro conclusioni.
L’enfasi data dal Buddismo alla relazione e all’interdipendenza sembrano suggerire che l’identità individuale sia oscurata, come espresso nel seguente brano: «Tu sei maestro di te stesso. Come potrebbe chiunque altro essere tuo maestro? Quando hai acquisito padronanza di te stesso, hai trovato un maestro di raro valore.» (17)
In un secondo brano si legge: «Siate come delle lampade per voi stessi. Affidatevi a voi stessi. Tenete stretta la Legge come se fosse una lampada e non vi affidate a nient’altro». (18)
Entrambi i brani ci esortano a vivere indipendenti, fedeli a noi stessi, senza essere influenzati dagli altri. Il «sé» cui ci si riferisce qui non è il «piccolo io» (shoga) di cui parla il Buddismo, prigioniero tra le spire dell’egoismo. Si tratta, invece, del «grande io» (taiga) che si fonde con la vita dell’universo tramite cui causa ed effetto si intrecciano nelle dimensioni dello spazio e del tempo.
Questo grande io cosmico è in relazione con il «sé» unificante che Jung percepì nella profondità dell’ego. Esso può essere assimilato anche a quella che Ralph Waldo Emerson definì come «la bellezza universale, con cui ogni parte e ogni particella è in relazione allo stesso modo; l’eterno Uno». (19)
Sono convinto che un risveglio al grande io su vasta scala porterà a un mondo di coesistenza creativa nel prossimo secolo. Desidero ricordare i versi di Walt Whitman, in cui egli celebra le lodi dello spirito umano:
Ma mi rivolgo a te, oh anima,
Tu, mio vero Io,
guarda!
Tu lieve domini gli astri
E il tempo,
sorridi, pago, alla morte,
e colmi
e accresci la vastità dello spazio. (20)
Il grande io del Buddismo Mahayana è un altro modo per esprimere l’apertura e l’ampiezza della personalità che abbraccia la sofferenza degli altri come se fosse la propria. Questo sé cerca sempre nuove modalità per alleviare il dolore e dare maggiore felicità alle altre persone, qui, nella realtà di ogni giorno. Solamente la solidarietà, che trae origine da tale nobiltà naturale all’uomo, penetrerà l’isolamento dell’io moderno e porterà una nuova speranza per la civiltà. Inoltre, è proprio il risveglio dinamico e vitale del grande io che ci per metterà, come individui, di fare esperienza sia della vita sia della morte con uguale felicità. Come affermò Nichiren: «Adorniamo la torre preziosa del nostro essere con i quattro aspetti [della nascita, della vecchiaia, della malattia e della morte]». (21)
Prego sinceramente perché, nel XXI secolo ciascun membro della famiglia umana lasci risplendere la luce naturale della propria «torre preziosa». Quando sul nostro azzurro pianeta si diffonderà il coro vibrante del dialogo aperto, l’umanità progredirà passo dopo passo verso il nuovo millennio.
NOTE
(1) Nichiren Daishonin Gosho Zenshu, a cura di Nichiko Hori, Tokyo, Soka Gakkai, 1952, pag. 404.
(2) Taisho Issaikyo, a cura di J. Takakusu, Tokyo, Taisho Issaikyo Publishing Society, 1925, vol. 9, 43c.
(3) Gosho Zenshu, pag. 788.
(4) Nanden Daizokyo, a cura di J. Takakusu, Tokyo, Taisho Shinshu Daizokyo Publishing Society, 1935, vol. 7, 27ff.
(5) Ibidem, vol. 24, pag.358.
(6) Josiah Royce, The Basic Writings of Josiah Royce, Chicago, The University of Chicago Press, 1969, vol. 2, pag. 1122
(7) Nanden Daizokyo, op. cit.,, vol. 11a, pag. 137.
(8) Philip B. Yampolsky, Selected Writings of Nichiren Daishonin, trad. Burton Watson, New York, Columbia University Press, 1990, pag. 322.
(9) Taisho Issaikyo, op. cit., vol. 30,.
(10) Selected Writings of Nichiren Daishonin, op. cit., pag. 138 (11) Gosho Zenshu, pag. 403.
(12) John Dewey, A Common Faith, New Haven, Yale University Press, 1934, pagg. 50-52.
(13) Gosho Zenshu, pag. 790.
(14) J. W. Goethe, Faust A Tragedy, trad. Bayard Taylor, New York, The Modern Library, 1967, pag. 17-18.
(15) J. W. Goethe, Conversations of Goethe with Eckermann, Londra, J. M. Dent and Sons Ltd., 1930, pag. 101.
(16) Nanden Daizokyo, op. cit.,, vol. 13, 1ff.
(17) Ibidem, vol. 23, pag. 42.
(18) Taisho Issaikyo, op. cit., vol. 1, 645c, 15b.
(19) Ralph Waldo Emerson, Essays and Poems of Emerson, New York, Hartcourt, Brace and Company, 1921, pag. 45.
(20) Walt Whitman, Leaves of Grass, Garden City, Doubleday and Company, 1926, pag. 348.
(21) Gosho Zenshu, pag. 74.