UN ORIZZONTE INFINITO

UN ORIZZONTE INFINITO

Università di Shenzhen, Guandong, 31 gennaio 1994

Nel 1993, quando Cai Delin, rettore dell’Università di Shenzhen, è venuto in visita in Giappone, mi ha conferito il titolo di professore emerito. Lo considero un grande onore e desidero ringraziarlo ancora. In quell’occasione abbiamo raggiunto un accordo riguardo a un programma di scambi educativi tra l’Università di Shenzhen e l’Università Soka. Desidero festeggiare con voi questo fortunato inizio di ciò che diventerà sicuramente una lunga amicizia che porterà tanti frutti.
Il mio primo viaggio a Shenzhen avvenne nel maggio del 1974. Oggi, vent’anni dopo, resto colpito dallo sviluppo e dalla varietà delle attività che vi sono sorte. La foresta di alte costruzioni, le strade moderne, le persone provenienti da tutta l’Asia che si mescolano in questa città piena di vita sono la prova del suo rapido progresso. Poiché sono sempre stato il paladino della prosperità della Cina e da molto tempo sostengo gli sforzi per stabilire buone relazioni tra i nostri paesi, vorrei esprimere tutta la mia gioia.

COSTRUIRE UN NUOVO SISTEMA MONDIALE

Ancora sconvolto dal colpo inferto dal cambiamento che ha attraversato l’Europa orientale e l’ex Unione Sovietica, il mondo affronta una nuova epoca, quella del dopo Guerra Fredda. Essa è iniziata con grandi speranze sull’onda di una nuova democratizzazione che, pochi anni or sono, sembrò diffondersi in tutto il mondo. Questa marea è retrocessa, messa in disparte da un’infinita catena di conflitti religiosi ed etnici. Le persone sono confuse sul modo in cui si possano risolvere queste crisi e sono incerte sul da farsi. Non è ancora chiaro come costruire un sistema che possa prendere il posto del contesto, ormai desueto, della Guerra Fredda e proteggere la pace nel mondo.
Per decenni, l’ordine globale è stato mantenuto dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Nel bene e nel male, le due superpotenze potevano esercitare pressioni per prevenire il crescendo delle ostilità tra nazioni rivali. Di quali strumenti disponiamo oggi per tenere a freno i conflitti regionali che minacciano la pace nel mondo? Una delle possibili forze di stabilità sono le Nazioni Unite, sebbene siano ancora troppo deboli per essere efficaci. Inoltre, come ha dimostrato la missione di pace in Somalia, il pericolo di rimanere coinvolti senza via d’uscita in una guerra civile o in un conflitto interno è sempre presente.
Alla fine dell’anno scorso ho incontrato il segretario generale dell’ ONU, Boutros Boutros-Ghali a Tokyo. Abbiamo parlato del futuro dell’organizzazione e di altri argomenti relativi a questo soggetto. Nutro una grande ammirazione per la dedizione e gli sforzi di tanti individui, appartenenti e non alle Nazioni Unite, che stanno cercando di trovare delle soluzioni ai difficili problemi sul fronte internazionale. Chi lavora a simili progetti, anche se non in ambito governativo, è sempre pronto a sostenere e incoraggiare i loro sforzi in tutti i modi possibili. Tuttavia, non si deve dimenticare la questione più ampia che riguarda l’origine di questa nebbia che sta avvolgendo gli ultimi anni del nostro secolo.
Molti fattori hanno concorso ad alimentare questo malessere di fin de siècle, ma uno dei più ovvi è lo stato di aridità psicologica, in modo particolare nei paesi industrializzati dell’occidente. Troppi sono gli individui che, senza un progetto o un orientamento per il loro futuro, vagano senza scopo. Le nostre società sono divorate da razzismo, droga, violenza, da un abbassamento qualitativo dell’educazione e dal collasso dell’unità familiare. Per quanto si desideri trovare una spiegazione, vi è un’esagerata tolleranza verso le passioni incontrollate e il comportamento meschino.
Max Weber (1864-1920) fu tra coloro che previdero un simile sviluppo. Al termine del suo studio sui contributi da parte della religione al capitalismo europeo, egli segnalò l’apparizione nelle mature società capitaliste di arroganti «specialisti senza spirito» e di «edonisti senza cuore». (1) La sua era una riflessione e non una predizione, ma a posteriori possiamo vedere che questi suoi timori non erano senza fondamento.

PERSONE PRIVE DI SPIRITO

Alcuni anni fa fu pubblicato il libro di Francis Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo, ampiamente pubblicizzato dai media, proprio nel periodo in cui la Guerra Fredda stava giungendo al termine. Fukuyama attinse a Nietzsche per descrivere il «super uomo» che sarebbe apparso alla «fine della storia». Gli uomini da lui descritti, come dotati di «desiderio» e «ragione» sono stranamente simili agli «edonisti senza cuore» e agli «specialisti senza spirito» di Weber : «La democrazia liberale produsse “uomini senza petto”, con desideri e ragione ma senza thymos (energia), intelligenti nel trovare nuovi modi per soddisfare un insieme di voglie meschine, attraverso il calcolo del proprio interesse a lungo termine». (2)
Questi sono i sintomi di una crisi della civiltà e al cuore di essa vi è la perdita dei criteri specifici con cui definire l’umanità. Ancora una volta, ci si deve porre la domanda di cosa si possa fare per ristabilire il nostro «spirito». Tanto per cominciare, dovremmo fermarci e ascoltare con attenzione i fiumi sotterranei della cultura che Arnold Toynbee definì «i movimenti più lenti e profondi che, alla fine, fanno la storia». (3) Se Toynbee si fosse riferito all’Asia, egli avrebbe potuto descrivere una distinta corrente di umanesimo che ha percorso continuamente le culture asiatiche, in modo particolare i tremila anni di storia della Cina. Questa tradizione di umanesimo ha alimentato la notevole crescita economica del gigante asiatico nei recenti anni.
Vent’anni or sono, Joseph Needham, un’autorità nel campo degli studi cinesi, tenne un discorso all’Università di Hong Kong.
Egli fece notare che, in quest’epoca di crepuscolo degli dei, sembra appropriato cercare «un concetto di moralità, un modello etico che non sia mai stato sostenuto da sanzioni da parte del sovrannaturale». (4) In tale ricerca, affermò: «A questo riguardo mi sembra che la cultura cinese possa offrire un inestimabile dono al mondo». (5)
Il Dio cristiano è un chiaro esempio di ciò che Needham intendeva per «sovrannaturale». In Occidente, i sistemi di pensiero etico hanno come premessa il riconoscimento e l’affermazione di agenti sovrannaturali, cioè un patto con Dio. L’etica giudaico-cristiana è la conseguenza di un patto tra Dio e i suoi figli mortali. Soltanto in un secondo tempo l’etica è stata considerata in termini di un patto tra le persone. Le famose tredici virtù di Benjamin Franklin (temperanza, silenzio, ordine, determinazione, sobrietà, industriosità, sincerità, giustizia, moderazione, pulizia, tranquillità, castità e umiltà), (6) per esempio, sono senza alcun dubbio frutto del pensiero greco e di quello cristiano. Ma esse contengono anche un’universalità che trascende la loro origine culturale o filosofica. Infatti, in qualche modo assomigliano alle virtù della tradizione cinese, in particolare a quelle confuciane di gentilezza, rettitudine, giudizio, decoro e lealtà. La somiglianza aiuta a spiegare l’entusiasmo con cui Benjamin Franklin fu considerato dai giapponesi del periodo Meiji (1868-1912), a partire da Yukichi Fukuzawa (1834-1901), pensatore ed educatore illuminato.
Vi sono, comunque, delle differenze tra le virtù confuciane e quelle di Franklin, una delle quali dipende dal concetto occidentale di patto con Dio. Le tredici virtù sono una classica espressione dell’ethos del periodo in cui il capitalismo si affermò negli Stati Uniti. Questi ultimi furono sostenuti dalla fiducia che la soppressione dei desideri personali e l’accumulo di ricchezze fossero segni del favore divino e testimonianza della gloria di Dio.
Questo produsse individui dalla grande disciplina e un gran senso della carità, come lo stesso Franklin, che divennero modelli di comportamento molto attrattivi. Tuttavia, trascorsero cento, duecento anni e la fede in Dio venne meno; allo stesso modo le virtù, parte integrante di quel credo, persero forza come punti di riferimento di vita. Di conseguenza, si può sostenere che la società industriale contemporanea assomigli da vicino al ritratto delineato da Fukuyama. Questo è il motivo per cui la nostra epoca necessita di modelli etici fondati sulla natura umana che non richiedano il riconoscimento o l’affermazione di Dio o di qualsiasi altro essere sovrannaturale.

IL SÉ E L’INDIVIDUO

Il motto dell’Università di Shenzhen è «Fiducia in sé, autodisciplina e miglioramento personale». Alzarsi in piedi da soli, disciplinarsi e rafforzarsi sono ideali volti alla creazione di individui eccelsi e forti che si assumeranno la responsabilità del futuro della Cina. Il concetto del sé in questo motto differisce molto dalla nozione di individuo nella cultura occidentale. Il termine «individuo» in Occidente assume la connotazione di separabilità, poiché esso si riferisce alla più piccola unità indivisibile della società umana e in quanto tale, un individuo è, in definitiva, un essere isolato. Il sé della filosofia cinese non è così limitato e implica un legame profondo con gli altri esseri.
Il professor William Theodore de Bary della Columbia University ha studiato l’uso delle parole cinesi che iniziano con il prefisso zi- (sé) nella storia del pensiero, durante le dinastie Sung e Ming. Alcuni esempi di queste sono ziran(naturale), zide (padrone di sé) e ziren (assumersi un compito). De Bary afferma: «Si potrebbe compilare un lessico virtuale di termini con il prefissozi- (tzu-) che ricorrono di frequente [nelle discussioni dei neoconfuciani]». (7) Sembra che dal termine «sé» si possa creare un intero dizionario che compone un arazzo etico, vario e complesso. In esso si intreccerebbero la forza e l’importanza della visione cinese dell’umanità.
è interessante notare che l’ideogramma di «persona» (ren) mostra due individui che si sostengono l’un l’altro. Penso che questo sia un punto essenziale del pensiero cinese. Il carattere che sta per «umanità» (anch’esso pronunciato ren) è composto da «persona» e dal numero due, con il significato di due persone, una di fronte all’altra, che stanno comunicando, o che si amano. Ciò implica che non esiste un individuo completamente isolato. Gli esseri umani sono uniti fra loro in un’unica entità vivente. I loro legami non sono limitati alla società, ma si estendono alla natura e all’universo, trasformando l’esistenza in un tutto organico. Nella tradizione cinese la visione dell’umanità e della natura fu influenzata in particolare modo dal Neoconfucianesimo di Zhu Xi (Chu Hsi), durante la dinastia Sung. Nel pensiero neoconfuciano le relazioni e l’interdipendenza tra le cose – inclusi gli esseri umani – sono più importanti della loro esistenza come entità distinte. Questa visione è profondamente legata all’insegnamento buddista della pratitya-samutpada, o principio dell’origine dipendente (engi in giapponese).
Si tratta di una prospettiva organica che non riconosce alcun fenomeno nell’universo come scollegato dall’umanità. Tutto è riassunto nella domanda: «Come dovremmo vivere?» In questo tipo di pensiero tutte le cose sono prese a misura d’uomo. Quindi, la scienza esiste per essere al servizio delle persone e così il governo, l’economia e l’ideologia. Il significato di bene e male, di ricchezza e scarsità e in definitiva tutti i fenomeni sono misurati secondo la scala della loro utilità per gli esseri umani. Questo tipo di umanesimo è presente in tutte le scuole orientali di pensiero, ma appare nella sua forma classica nella filosofia cinese.

L’UMANESIMO DI SUN YAT-SEN

Di grande interesse è la lettura dell’opera di Sun Yat-sen che ha dimostrato una profonda comprensione dell’umanesimo orientale. La sua definizione, unica nel suo genere, di libertà è esposta nel suo San Min Chu I (I tre principi del popolo) in cui egli si chiede come debba essere utilizzata, appunto, la parola «libertà». Egli suggerisce che, se la si impiega in riferimento all’individuo, la società sarà paragonabile ai granelli separati di una manciata di sabbia. Questa affermazione potrebbe sembrare la razionalizzazione di un nazionalista autoritario, ma fa parte di una più ampia argomentazione relativa ai diritti delle persone. In un contesto allargato, essa diventa la testimonianza di una persona dedita alla libertà, piuttosto che una giustificazione di un sedicente dittatore. Per Sun Yat-sen la libertà non è una semplice parola stampata o un concetto, ma una realtà vivente che vibra nell’esperienza immediata e nei sentimenti degli individui. Un’idea astratta di libertà, applicata a livello universale, è un’illusione; non deve essere realizzata sotto coercizione, ma cercata e costruita a partire dalla realtà in cui viviamo.
Sun Yat-sen sostenne che gli scopi di qualsiasi lotta devono colpire in fondo all’animo. Altrimenti le persone non vi si impegneranno mai. L’espressione «realtà umana» è un altro modo di dire «l’esperienza immediata e i sentimenti vitali delle persone». Lontano dall’esperienza di vita non esiste ciò che viene definito libertà per il popolo, poiché le due vivono di relazione reciproca. Le persone non esistono per il bene della libertà.
Il pragmatismo cinese è caratterizzato dalla capacità di abbracciare contraddizioni apparentemente logiche e l’irrazionalità nella complessa totalità della cultura. Esso rifiuta la tentazione di risolvere gli elementi conflittuali della società imponendo per forza un confronto diretto tra di essi. Si tratta di un tipo di umanesimo generoso e flessibile che si oppone, nell’essenza, a una scelta forzata tra due alternative. In questo modo la tradizione filosofica cinese, come visto nel concetto della Grande armonia (Da Tong), ha favorito un approccio olistico in cui il conflitto è evitato dall’unificazione delle alternative. Il concetto di Sun Yat-sen di libertà, che egli non scoprì nei libri, ma nel costante cambiamento della vita reale, da istante a istante, è un prodotto di questo olismo. è facile riscontrare un legame tra la sua filosofia e la politica, adottata in Cina di recente, in cui si combinano socialismo e libero scambio. Da quando è entrato in vigore la prima volta, nel 1992, questo nuovo corso ha fatto molto discutere in Cina e all’estero. Da una certa prospettiva può sembrare che innestare il libero scambio, culla del capitalismo, sul tronco del socialismo (definito da una pianificazione dell’economia) possa risultare un arduo tentativo, come l’innesto di un bambù su una quercia.
Ma se prendiamo, per un momento, le distanze dal governo e dall’economia e pensiamo in termini di umanesimo unificante e olistico, all’improvviso l’«economia di mercato socialista» acquisisce una sfumatura diversa. Si consideri ciò che Deng Xiaoping affermò circa l’introduzione delle istituzioni di libero scambio o persino di un mercato borsistico: «Approviamolo e, determinati, sperimentiamolo. Se dopo uno o due anni funziona, liberalizziamolo. Se non funziona, apportiamo delle correzioni prima di abbandonarlo. Perché se lo si abbandona, lo si può fare velocemente, lentamente oppure se ne possono lasciare delle tracce. Cosa temiamo? Se assumiamo un simile atteggiamento, non potrà succedere nulla di male. Non faremo un grosso errore». (8)
Questo può essere definito un atteggiamento flessibile e generoso. Incontrai Deng in due occasioni, durante la mia seconda visita in Cina e anche nella terza. In entrambe egli condivise con me la sua visione sullo sviluppo e la prosperità della Cina. La sua politica secondo cui, per giudicare se qualcosa nell’«economia del libero scambio» sia appropriata o meno, si adotta una scala «umana», è un’idea splendidamente umanista. Questa assicura lo sviluppo di un’economia a misura d’uomo; un’economia che non ne turba l’esistenza.

UN’ECONOMIA DI MERCATO SOCIALISTA

Il metodo graduale che è stato adottato per introdurre l’economia di mercato è un esempio di approccio fondato sulla prudenza. Invece di lanciare cambiamenti capillari e contemporanei, sono state scelte delle zone, come Shenzhen, quali aree di sperimentazione. La limitazione dell’implementazione dell’economia di mercato in alcune regioni consente di monitorarne i risultati, fare correzioni e migliorarne le politiche. Credo che l’approccio graduale allo sviluppo dell’economia di mercato socialista, nonostante possa presentare delle incongruenze, abbia rappresentato una scelta critica per la Cina, in modo particolare per le tante difficoltà che la nazione avrebbe affrontato durante tale cammino.
Si tratta di una scelta che minimizza gli effetti negativi delle restrizioni economiche avvenute nella storia e mira alla stabilità e alla crescita sociale. Se prendiamo in considerazione la vastità della popolazione e del territorio del Gigante asiatico, questo esperimento storico avrà sostanziali ripercussioni nel XXI secolo. Il mondo guarda agli sforzi della Cina con grandi aspettative e io, come vostro amico di vecchia data, prego per il vostro successo.
In sintesi, tutto ha inizio con le persone e fa ritorno alle persone. In economia, come in ogni altro ambito, si deve esercitare quel tipo di controllo a misura d’uomo, espresso dal detto confuciano per cui la virtù è la radice e la ricchezza è il frutto. In mancanza di questo, si incoraggerà soltanto la tendenza ad adorare la ricchezza, malattia ormai già molto diffusa. Quando Joseph Needham parla di «concetto di moralità» e di «modello etico», egli propone un’antitesi a questa tendenza. E quando Toynbee scriveva: «Il destino della Cina è forse quello di dare unità politica e pace non solo alla metà, ma al mondo intero», (9) egli stava anticipando la diffusione della forza morale umanista che la Cina ha accumulato lungo la sua storia. Credo che qui a Shenzhen, mentre guardate al prossimo secolo con uno spirito fondato sulla fiducia in sé, sull’autodisciplina e sul proprio miglioramento, l’umanesimo come inteso da Needham e da Toynbee, vi attenda all’orizzonte.

NOTE
(1) Max Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, trad. Talcott Parsons, Londra, Unwin University Books, 1970, pag. 182.
(2) Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.
(3) Arnold Toynbee, Civilization on Trial and the World and the West, Cleveland e New York, The World Publishing Company, 1968, pag. 188.
(4) Joseph Needham, Moulds of Understanding: A Pattern of Natural Philosophy, a cura di Gary Werskey, Londra, George Allen & Unwin Ltd., 1976,pag. 302.
(5) Ibidem, pag. 301.
(6) Benjamin Franklin, The Autobiography and Selections from His Other Writings, a cura di Herbert W. Schneider, New York, The Liberal Arts Press, 1952, pagg. 81-83.
(7) W. Theodore de Bary, The Liberal Tradition in China, New York, Columbia University Press, 1983,pag. 44.
(8) Deng Xiaoping, Deng Xiaoping Wenxuan (Scritti scelti di Deng Xiaoping), Pechino, Pubblicazioni del Popolo, 1993, vol. 3, pag. 373.
(9) Arnold Toynbee e Daisaku Ikeda, Dialoghi, l’uomo deve scegliere, Bompiani Editore, 1988, pag. 245.

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