Accademia delle Lettere del Brasile, Rio de Janeiro, 12 febbraio 1993
Permettetemi di estendere i miei saluti al presidente Austregésilo de Athayde, ai membri dell’Accademia delle lettere del Brasile e a tutti gli eminenti ospiti. L’Accademia delle lettere del Brasile mi ha conferito la medaglia Machado de Assis e il grande onore di essere nominato membro non residente su richiesta di Francisco de Mont’Alverne, originario di Rio de Janeiro. Tra coloro che hanno ricevuto tale riconoscimento prima di me, vi sono stati il filosofo inglese Herbert Spencer, il sociologo francese Jean Finot, lo scrittore francese Ernest Martinenche, lo storico spagnolo della letteratura Ramón Menéndez Pidal e il traduttore americano William Grossman, conosciuto per le sue traduzioni degli scritti del fondatore di questa stessa Accademia, Machado de Assis.
è un arduo onore essere designato come successore di eminenti individui e il primo asiatico ad avere un simile privilegio.
Secondo Machado de Assis, conosciuto anche come il padre della letteratura brasiliana contemporanea, l’Accademia delle lettere del Brasile, fondata alla fine del XIX secolo, fu modellata sull’esempio dell’Institut de France. L’Accademia aveva lo scopo di essere un’assemblea di giovani brasiliani dediti alla promozione di nuove idee e di nuovi modi di pensare. Quando nel 1989 fui invitato a parlare presso l’Institut de France, conclusi il mio intervento con una mia poesia:
[…] Ed ecco l’Arte,
che invita l’anima a prenderla per mano
verso un bosco tranquillo,
verso un giardino in cui l’immaginazione
divampa nel cielo;
che la invita al nobile dramma della saggezza,
conducendola verso l’orizzonte lontano
della civiltà universale.
La scienza e la tecnologia possono forgiare rapidamente il nostro mondo in una singola entità, ma non possiamo guardare a un futuro migliore a meno che non siamo spiritualmente preparati. Si deve aspirare a quella che può essere definita una civiltà universale.
Da un punto di vista ottimistico il collasso dell’ideologia condurrà al pluralismo; se invece adottiamo un’ottica negativa, ne conseguirà il caos. Data la necessità di ricercare l’unità e l’armonia nell’ambito della diversità, l’esperimento brasiliano sarà estremamente importante nell’aprire la strada verso una civiltà universale. Il Brasile, con la sua democrazia caratterizzata dalla diversità etnica, potrebbe diventare un prezioso esempio per il futuro ed essere d’aiuto nell’evitare quelle condizioni che hanno fomentato le recenti sommosse di Los Angeles, il neonazismo in Germania e altri eventi che tendono alla divisione.
Il carattere dei brasiliani è stato descritto da Sérgio Buarque de Holanda in un suo lavoro: «Le virtù che loda chiunque visiti il Brasile – l’apertura mentale, la gentilezza, l’ospitalità e la generosità di spirito – devono diventare tratti indelebili.» (1) Un mio conoscente giapponese, qui trasferito, concorda con questa descrizione. Parecchi anni fa, parlai con Ryoichi Kodama, emigrante di prima generazione, vissuto qui per ottant’anni. Egli dichiarò con allegria: «Amo la natura brasiliana. Davvero amo il Brasile e se mi domandaste dove desidererei nascere nella mia prossima vita, direi in Brasile!» (2) Cosa c’è al cuore di questo carattere che ha affascinato così tante persone? Dopo aver letto il capolavoro Grande Sertão di João Guimarães Rosa, scrittore del XX secolo, credo di aver compreso che il temperamento brasiliano trae la propria origine spirituale dal senso di universalità.
Durante gli ultimi secoli la civiltà europea ha disseminato in tutto il globo un modello di universalismo tecnologico e scientifico. Con una spinta implacabile all’efficienza e all’espansione, ha imposto con la forza la propria influenza, ovunque. Arnold Toynbee discute di questo fenomeno nel suo Il Mondo e l’Occidente, in cui afferma che ogni nazione ha scoperto di dover definire il proprio futuro secondo le proprie reazioni alla civiltà europea. Dagli anni venti, le grandi menti del Brasile hanno dibattuto su questo tema e hanno utilizzato il modernismo o il regionalismo come loro punti di riferimento.
L’universalismo della scienza moderna non è un universalismo puro. In un mondo astratto e autoreferenziale, slegato da valori e da un proprio significato, una cultura basata sulla scienza e la tecnologia può essere sì uniforme e globale, ma non scalfisce che la superficie delle cose. Non fa altro che sfiorare l’interezza della vita umana. Piuttosto che essere universale, è un elemento specifico, particolare, e soltanto uno dei tanti che possono essere espressi da una cultura.
Il dottor Fred Hoyle, astronomo dell’Università di Cambridge, parla dell’universalità tramite la metafora di una scatola «chiusa» opposta a una scatola «aperta» nella sua prefazione a un dialogo tra me e un suo allievo dello Sri Lanka, l’astronomo N. Chandra Wickramasinghe. Secondo il dottor Hoyle, la scienza moderna è basata su una concezione geocentrica, un’idea che apparve nel V secolo d.C. Egli descrive questa idea come la «scatola chiusa»: «Non ritiene concepibile che qualsiasi cosa accada qui sulla Terra possa avere una relazione con eventi di un universo al di fuori di essa, eccetto naturalmente per il benefico effetto del Sole». (3)
Se la «scatola chiusa» è metaforicamente un tipo di mentalità ristretta e campanilistica, non offre certo gli strumenti migliori per risolvere questioni in qualsiasi ambito. Si tratta di un modo di pensare che, in definitiva, esclude qualsiasi influenza esterna; è un pregiudizio egocentrico. La propensione dell’essere umano a pensare in tal modo è molto più dannosa di un approccio esclusivamente scientifico. La sua influenza può avere un effetto negativo sulla nostra visione del mondo nella sua interezza. Il geocentrismo, presente in gran parte della scienza moderna, trova eco nell’antropocentrismo e nell’etnocentrismo, insinuatisi nella civiltà moderna. Queste prospettive sono tutte frutto dello stesso modello di «scatola chiusa».
Altro effetto di questo tipo di pensiero è il colonialismo. I suoi assunti, che hanno fornito una giustificazione razionale perché gli stranieri controllassero Asia, America Latina e Africa, continuano a esercitare una grande influenza. Essi sono radicati in modo così profondo che nemmeno gli scienziati, per quanto ben intenzionati, li riconoscono. L’etnocentrismo, che determinò le politiche di conquista e si rafforzò sempre più in conseguenza di queste, non fu riconosciuto per lungo tempo, in parte a causa del fatto che queste stesse erano spesso motivate da un senso di dovere o missione, generalmente accettato, sebbene mal riposto.
Una simile mentalità potrebbe essere mitigata da un atteggiamento cosiddetto a «scatola aperta» verso la vita e l’universo. Il dottor Hoyle ha notato una simile apertura mentale nel dialogo tra me e il dottor Wickramasinghe. Il celebre astronomo ha osservato che forse il nostro pensiero riflette la nostra identità asiatica, specchio delle tradizioni culturali del Buddismo.
Le conseguenze del modello a «scatola chiusa», per quanto riguarda l’etnocentrismo, sono drammaticamente illustrate in Cuore di tenebra del romanziere di origine polacca Joseph Conrad. Marinaio su una nave che trasportava avorio, quest’ultimo navigò sul fiume Congo e fu diretto testimone dello sfruttamento dei neri d’Africa da parte dei bianchi europei. L’opera che scrisse su questo argomento non ha eguali per il suo toccante realismo. In un brano che fa riferimento alla conquista di nuovi territori, Conrad scrive che la conquista, in generale, è portatrice di rovina e saccheggio per popolazioni di un colore diverso, e che: «[La conquista di una terra] non è una cosa bella a uno sguardo più attento. Ciò che la redime è soltanto l’idea che l’accompagna e che la sostiene, non un pretesto sentimentale, ma un’idea e una fede egoista in quell’idea – qualcosa che può diventare un sistema cui inchinarsi, cui offrire dei sacrifici […]». (4)
Qui l’autore delinea un ritratto dell’universalismo impersonale che è all’opposto della passione barbarica del colonialismo. L’ idea è irrefutabilmente un prodotto della «scatola chiusa». Potrebbe sembrare affascinante, ma, accostata all’atteggiamento della «scatola aperta», si rivela come un pregiudizio osceno. Basti ricordare il terrificante genocidio di intere popolazioni che vennero in contatto con i seguaci di ciò che Conrad definì «idea».
Il pensiero a «scatola chiusa» non ha solo generato il colonialismo, ma ha creato anche la cornice entro la quale si è formata la civiltà moderna. La sensibilità per la sofferenza altrui e la capacità di comprendere e accettare culture e popolazioni differenti sono state letteralmente eliminate dalla vita moderna. L’equilibrio tra intelletto ed emozione, tra empatia con la natura e l’universo e la meraviglia per le grandi cose sembrano mancare in molti di noi. Tuttavia queste qualità risuonano nella descrizione di Holanda sul Brasile e i brasiliani.
Non vi è alcun dubbio che esista un lato oscuro del Brasile. Il poeta Carlos Drummond de Andrade descrive il suo paese con una sfumatura di rassegnazione: «Così maestoso, così infinito, così assurdo, / esso vuole allontanare il nostro straordinario affetto». (5) Come egli fa notare, lo spirito brasiliano si alterna tra luce e oscurità in modo così sconcertante da sfidare qualsiasi descrizione semplicistica. Tuttavia, riconosco nello spirito brasiliano, sebbene i suoi contorni non siano ancora del tutto chiari, la strada verso un grande universalismo che potrebbe sostituire quello superficiale della società moderna.
Di recente la Soka Gakkai Internazionale ha organizzato una mostra dal titoloL’ambiente e lo sviluppo, che ha fatto parte delle iniziative del Summit della Terra svoltosi in Brasile. Il presidente Athayde è intervenuto proprio in questa sala e ha affermato: «I brasiliani sono grandi persone. Sono fonte della nostra speranza. Se vogliamo affrontare le tante sfide che ci pone il nuovo secolo, dobbiamo affidarci ai brasiliani, futuro del nostro paese».
La grandezza di un popolo è riflessa nella sua arte e nella letteratura. Molte nazioni industrializzate hanno perso vitalità, lasciando una «terra desolata», secondo le parole di T.S. Eliot, o una «fonte inaridita», secondo quelle di Paul Valéry. Al contrario, la letteratura brasiliana e, invero, quella latino-americana dimostrano un’acuta consapevolezza dell’odierna crisi mondiale dello spirito ed emanano una fiera energia volta alla formazione di un nuovo ordine universale.
Due europei cosmopoliti, Michel de Montaigne e Stefan Zweig, vissero esistenze tumultuose, rispettivamente all’inizio e alla fine dell’epoca moderna. Esercita grande fascino il fatto che entrambi furono alla ricerca di valori spirituali universali e ciascuno di essi nutrì un bruciante interesse per il Brasile. Montaigne ne ebbe notizie da un suo servitore, vissuto in questo paese per più di dieci anni. In quel periodo, la nazione del Brasile non esisteva; furono piuttosto gli usi e costumi dei nativi che incantarono Montaigne. Al contrario, Zweig fece esperienza diretta del paese alla metà del XX secolo, quando questo era ormai divenuto una democrazia progredita, fondata sulla diversità etnica. Perseguitato dai nazisti, Zweig vi trovò rifugio. Il parallelo fra questi due uomini, una pura coincidenza, assume, nel particolare, un importante significato. In effetti, mentre si trovava in Brasile, attanagliato dalla morte, Zweig lesse con avidità i lavori di Montaigne.
Ho amato i Saggi di Montaigne fin dalla mia prima giovinezza. In questa grande opera, un tesoro di saggezza, vi è una sezione in cui vengono descritti gli usi dei brasiliani: «Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei propri usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui ci troviamo». (6)
Queste quiete riflessioni sui costumi di una società americana indigena erano, per quei tempi, particolarmente scioccanti e coraggiose, a causa delle convenzioni del tempo. La visione libera di Montaigne anticipò di quattro secoli il paradigma del relativismo culturale, a volte definito «la scoperta del primitivo», dell’antropologia del XX secolo.
Montaigne ci ricorda che la capacità di percepire le cose dal punto di vista altrui è un requisito essenziale per un vero cosmopolita. Questo è un modo di pensare a «scatola aperta». Una visione unilaterale, che riduca tutto a un singolo standard, non potrà mai essere chiamata «universalista».
Fuggito dalla sua terra natale, Stefan Zweig espresse il proprio rammarico poiché: «Tutto ciò per cui, per quasi metà secolo, ho preparato il mio cuore a battere come quello di un citoyen du monde, è stato inutile». (7) Deluso e sofferente, Zweig fu abbracciato e confortato dal calore della grande terra del Brasile. In tal senso, non vi sono brani che descrivano in modo più articolato la natura accogliente del Brasile, la sua volontà, quanto quelli in appendice del suo libro Il mondo di ieri: «Il mio amore per il paese è cresciuto di giorno in giorno e in nessun altro luogo avrei preferito costruirmi una nuova esistenza. Il mondo cui apparteneva la mia lingua era, ai miei occhi, sparito e la mia casa spirituale, l’Europa, si era distrutta». (8)
Due guerre mondiali e il genocidio nazista si rivelarono un tentato suicidio della nostra civiltà. Bastava poco per rendersi conto di quanto fossero selvaggi i cittadini delle civiltà altamente sofisticate. Dopo essere stato spettatore di quegli orrori, Zweig deve aver sentito un’immediata identificazione con Montaigne. Sebbene vissuto in passato, questi affermò che non possiamo chiamare nessuno «barbaro», per quanto primitivo possa essere, perché «lo superiamo in ogni tipo di barbarie». (9)
Ho appreso molto sul Brasile dal libro The Modern Culture of Latin America: Society and the Artist di Jean Franco, pioniere degli studi latino-americani. In questo testo, l’autore suggerisce che la tensione è la caratteristica distintiva della cultura brasiliana del XX secolo: «Una caratteristica evidente della vita culturale brasiliana degli ultimi quarant’anni è la tensione tra la necessità di radici e la spinta alla modernità, tra chi vuole enfatizzare le caratteristiche locali o regionali e chi vuole che il Brasile sia all’avanguardia della cultura mondiale». (10)
Questa valutazione, in modo succinto, coglie parte dell’essenza della cultura brasiliana. I ricchi frutti del grande universalismo di questo paese potranno essere raccolti soltanto quando sarà presente la tensione tra universalismo, appunto, e particolarismo. Devastati dalle ideologie di razza e classe, gli individui in questo nostro secolo hanno pagato a caro prezzo la lezione vitale per cui il divorzio tra universale e particolare può facilmente trasformarsi nel pericoloso autocentrismo su cui ci ammoniva Conrad nella sua discussione di «idea».
La vera universalità deve essere ricercata nel particolare. Il compenetrarsi dell’uno con l’altro crea uno stato di costante tensione tra i due. Compito dell’arte è quello di essere a sostegno di questa tensione e il suo valore trae origine dall’evocazione dell’universale, celato nel particolare. Il Buddismo Mahayana ci orienta verso questo stesso tipo di tensione. Nichiren Daishonin, i cui insegnamenti guidano i membri della Soka Gakkai Internazionale, definisce lo spirito Mahayana come segue: «Gli ottantaquattromila insegnamenti, predicati da Shakyamuni nella sua vita, sono il diario dell’essere». Afferma inoltre: «L’esempio di una persona rappresenta la verità imparziale e inerente in ogni essere umano». (11) In altre parole, gli insegnamenti e i concetti universali non possiedono di per sé alcun significato. Essi si schiudono concretamente nella vita di ciascun individuo.
Il modo più veloce per scoprire le qualità di un popolo è guardare alle menti dei suoi grandi scrittori. Grande Sertão, che ho citato poco fa, ci dice molto sul Brasile quando prende in esame questioni come il senso delle radici e la modernità. Vi è un particolare potere nelle parole brutali e arroganti del giovane jagunço (ruffiano) Riobaldo, mentre si batte nelle terre selvagge del Brasile nord-orientale: «Vorrei fondare una città il cui fulcro sia la religione». (12) Chi altri parlerebbe di religione con un simile candore nel mondo d’oggi?
La spiritualità contemporanea si presenta sotto una miriade di forme e qualità. Essa può essere, quindi, laicizzata in modo da sopravvivere nel nome in modo informale, soltanto come pura forma esteriore, oppure essere ridotta a una questione interiore e personale. A volte si tratta di un misto di pratiche occulte e di superstizione. Le religioni vivono periodi di crescita per poi contrarsi o, all’improvviso, esplodere con forza e fomentare conflitti sanguinari. Queste sono tutte immagini negative; sembra che oggi di rado si parli della religione in termini positivi e con speranza. Nel personaggio di Riobaldo, tuttavia, troviamo un individuo che parla di religione con aspettativa e calore. Sebbene in apparenza rozzo e in qualche modo selvaggio, il suo cuore batte con sensibilità in risposta a questioni come il rapporto tra bene e male e la natura dell’amore, della fiducia, della libertà e del coraggio.
Il tentativo di controllo del sertão, l’entroterra, non è semplicemente una battaglia per l’egemonia. Si tratta di stabilire la giustizia, un colpo inferto da un risvegliato senso di missione. Essa diventa poi una battaglia interiore. Così dice Riobaldo: «Dobbiamo risvegliare il sertão! Ma l’unico modo per risvegliare il sertão è farlo dall’interno». (13)
«Il sertão è dentro ognuno di noi». (14)
Il significato di sertão si estende dallo specifico entroterra al simbolo universale del nostro entroterra interiore. Inoltre, «una città il cui fulcro sia la religione» è un simbolo astratto di ciò che è stato interiorizzato e si è spogliato della propria natura profana per diventare «manifestazione del sacro». La religione, in tal senso, abbraccia e unifica l’umanità, la natura e l’universo. Essa è fonte di energia per la rivitalizzazione del cosmo. Poiché manifestano questo senso della religione, le parole di Riobaldo contengono una realtà e uno spessore che potrebbero essere definiti «grande universalismo».
La realtà di Rosa affonda le proprie radici in un attaccamento tenace al particolare. Egli trovò il materiale per i suoi lavori nel mondo primitivo di un jagunço, l’ambiente descritto con dettagli degni di un naturalista o un geologo, e nel folclore popolare. Gli scenari da lui descritti hanno lo stesso effetto di quelli della Gioconda in cui le rocce si elevano in perfetta prospettiva, come ornamento al sorriso della Gioconda.
Rosa vede una risposta ai problemi del mondo nella religione, non intesa come dogma. Sarà la preghiera che ci salverà. Egli scrive: «Ciò in cui credo fermamente e che affermo e sostengo è questo: l’intero mondo è folle. Lei, signore, io, noi, tutti. Questa è la ragione principale per cui abbiamo bisogno della religione: per curare la nostra follia, per riacquistare la nostra salute mentale. La preghiera è ciò che cura la follia. Di solito, è la salvezza dell’anima». (15)
Lungi dal curare, il dogma può soltanto alimentare le fiamme della follia e del fanatismo nel genere di mondo religioso che Rosa anticipa. La religione coltiva ed eleva la spiritualità umana, fornisce le basi per la costruzione di un nuovo universo. Essa rappresenta l’ideale del grande universalismo che deve diventare la spina dorsale della civiltà mondiale, nel XXI secolo. Dedicherò tutte le mie energie alla costruzione di queste fondamenta dello spirito universale. Per concludere, immaginiamo il futuro illimitato del Brasile con alcuni versi dall’Ode ao Dous de Julho del grande poeta brasiliano del XIX secolo Castro Alves:
Sì!
Attraverso le nostre dita,
è scivolata la sabbia del tempo
finché
un secolo scorre via,
in un paese,
in cui nomi di grandi persone
saranno scoperti in tutta la loro pienezza,
più di quanta le nostre mani ne possano contenere.
Oh!
Voi, eroi!
Come maestosi cedri,
che dopo il lungo scorrere dei secoli
si ergono, imponenti e liberi,
voi siete i giganti della storia:
all’ombra della vostra gloria
è lì che riposa il Brasile. (16)
NOTE
(1) Sergio Buarque de Holanda, Burajirujin towa nanika, Tokyo, Shin Sekaisha, 1976, pag. 166.
(2) Daisaku Ikeda e Ryoichi Kodama, Taiyo to Daichi – Kaitaku no Kyoku, (Il Sole e la Terra – La canzone dei pionieri), Tokyo, Daisan Bunmei-sha Publishing Co., Ltd., 1991, pag. 185.
(3) Chandra Wickramasinghe e Daisaku Ikeda, Uchu to ningen no Roman wo kataru (Il romanzo dell’uomo e dell’universo), Tokyo, The Mainichi Shimbun, 1992, pagg. 2-3.
(4) Joseph Conrad, Heart of Darkness, New York, Penguin Books, 1973, pag. 32.
(5) Carlos Drummond de Andrade, «Hino Nacional», Reunião-10 Livros de Poesia, Rio de Janeiro, José Olimpio Editoria, 1978, pag. 37.
(6) Michel De Montaigne, Saggi, EDIPEM 1974, pag. 120 (7) Stefan Zweig, The World of Yesterday, Lincoln, University of Nebraska Press, 1964, pag. 412.
(8) Ibidem, pag. 437.
(9) Montaigne, Saggi (op. cit.).
(10) Jean Franco, The Modern Culture of Latin America: Society and the Artist, New York, Frederick A. Praeger, 1967, pag. 267.
(11) Gosho Zenshu, pagg. 563-564.
(12) João Guimarães Rosa, The Devil to Pay in the Backlands, (Grande Sertão: Veredas, 1956) trad. James L. Taylor e Harriet de Onas, New York, Alfred A. Knopf, 1963, pag. 257; Ediz italiana: Feltrinelli, Milano, 1988.
(13) Ibidem, pag. 232.
(14) Ibidem, pag. 257.
(15) Ibidem, pag. 10.
(16) Castro Alves, «Ode Ao Dous de Julho», in Castro Alves por Eugênio Gomes, Rio de Janeiro, Livraria AGIR Editôra, 1963, pagg. 42-44.