Conferenze di Daisaku Ikeda UNA CIVILTÀ ATEA
Foto di Daisaku Ikeda alla scrivania

Università di Pechino, 22 aprile 1980

Il vicepresidente Ji Xianlin, il vicepresidente Wang Zhuxi, i membri di facoltà e il corpo studentesco dell’Università di Pechino hanno reso possibile questa mia visita di oggi. Sono grato dell’opportunità di condividere con voi alcune mie riflessioni sul modo in cui diverse concezioni dell’umanità influenzeranno il nostro mondo.
Alcune settimane fa il dottor Kojiro Yoshikawa, un’autorità nel campo della letteratura cinese, è deceduto. Sono certo che vi sono molte persone in Cina che lo ricordano per il suo lavoro. In uno dei suoi libri, egli descrive la Cina come una «civiltà atea». Sicuramente nessuna idea nella civiltà o cultura cinesi corrisponde a un concetto giudaico-cristiano o islamico di Dio. Inoltre, mentre in altri paesi asiatici, inclusi il Giappone e l’India, si è preservato un vasto corpo di miti risalenti all’antichità, la Cina è stata la prima a spogliarsi della mitologia.
Confucio, ci raccontano gli Analecta, «non parlava mai di prodigi, atti di valore, del male e degli esseri spirituali». (1) Questa stessa inclinazione sembra scorrere nella civiltà cinese in generale. In riferimento a Confucio, la frase «civiltà atea» mi colpisce perché molto appropriata.

UN PARTICOLARE ATTEGGIAMENTO VERSO L’UNIVERSALE

Quale visione assume la civiltà cinese rispetto agli esseri umani e al mondo in cui essi vivono? In generale, sulla base della mia conoscenza limitata dell’argomento, suggerirei che «una visione dell’universale alla luce del particolare» potrebbe caratterizzarne l’atteggiamento fondamentale.
Come esempio di ciò che intendo, prenderò le prime pagine della sezione biografica dello Shiji (Memorie storiche) in cui Sima Qian (2) cita la credenza popolare secondo la quale il Cielo non ha favoriti, ma è sempre dalla parte dell’uomo buono. L’autore continua con l’intento di dimostrare come la storia possa capovolgere questa prospettiva con esempi di uomini buoni che furono distrutti e di malvagi che prosperarono. La sua reazione è evidente nelle celebri parole: «Mi sono ritrovato a nutrire delle perplessità. Questa Via, cosiddetta del Cielo, è giusta o sbagliata?» Questo è un brano molto conosciuto anche in Giappone.
Non desidero approfondire soltanto ciò che si intende con il termine «Via del Cielo». Senza alcun dubbio, esso riflette entrambe le filosofie confuciana e taoista, ma, dal punto di vista della nostra epoca, ha un che di ideologia feudale. Allo stesso tempo, l’esistenza di un simile concetto è testimonianza di individui che nell’antichità anelavano a una definizione dei principi universali. E questa spinta, volta alla scoperta di una legge universale o principio sottostante, che unisce fra loro gli esseri umani e il mondo naturale, non è solo peculiare dei cinesi, ma è un tratto comune alle società di tutti i tempi.
Nel brano che ho appena citato, Sima Qian mette in questione la validità della «Via del Cielo» come principio universale; questa non regge alla prova dei singoli eventi. Lo storico, inoltre, parla per esperienza personale. Il suo amico Li Ling era un generale; fu costretto ad arrendersi in battaglia, cosa che mandò su tutte le furie l’imperatore. Quando Sima Qian intervenne a difesa dell’amico in presenza dell’imperatore, fu condannato a essere evirato. La questione Li Ling e le sue conseguenze costituirono un terribile colpo. L’amarezza e il risentimento che Sima Qian sperimentò conseguentemente alla punizione, sono riflessi in numerosi passi dei suoi scritti. In modo particolare, questo evento doloroso lo portò ad assumere un atteggiamento di valutazione personale circa il bene e il male, il giusto e lo sbagliato. Nella sua domanda riguardo la Via del Cielo, non era tanto in discussione il principio in sé, quanto se fosse giusta la sua particolare «Via del Cielo», la tragedia che gli era capitata come individuo. In questo senso, Sima Quian offre un esempio di come i cinesi abbiano la tendenza di concepire l’universale alla luce del particolare.
Al contrario, le società in cui il concetto di Dio costituisce il fondamento filosofico tendono a considerare il particolare alla luce dell’universale. Dio dirige il destino del mondo da un regno molto distante da quello degli esseri umani e si può osservare come l’essere assoluto, universale, manifesti la provvidenza divina nel mondo in cui viviamo. La relazione uomo-Dio è unilaterale, poiché il ruolo del primo è rigorosamente passivo. In questo sistema, è impensabile mettere in discussione la «Via del Cielo» come fece Sima Qian. Simili dubbi furono permessi in Europa soltanto verso la fine del XIX secolo quando si proclamò apertamente la «morte di Dio».
Di conseguenza, quando gli europei contemplavano il mondo umano e quello naturale, inevitabilmente assumevano un atteggiamento analitico nei loro confronti e li consideravano attraverso la lente del concetto di Dio. L’idea dell’essere supremo, come mezzo per guardare al mondo, non riuscì ad attecchire in culture che differivano per storia e tradizione. Gli europei ricorsero alla forza nel tentativo di imporre la propria fede agli altri e questo portò a un colonialismo aggressivo e razzista, finemente celato da un velo di zelo religioso.

UN’EREDITÀ ECUMENICA

A causa della tendenza a concepire l’universale in termini di particolare, i cinesi non hanno fatto ricorso a concezioni di mediazione, come il monoteismo, e sono riusciti a desumere principi profondi di validità universale direttamente dalla realtà. Nei suoi ultimi anni di vita, lo storico britannico Arnold J. Toynbee affermò che il gigante asiatico sarebbe diventato una civiltà di centrale importanza nella storia mondiale, grazie all’atteggiamento ecumenico sviluppato dalla sua popolazione in migliaia di anni. Toynbee, che era critico nei riguardi del Cristianesimo, riconosceva nella venerabile tradizione cinese un cosmopolitismo in germoglio, che prometteva di cogliere di sorpresa l’universalismo europeo, così diverso e aggressivo.
Non intendo dissimulare le dure realtà della storia della Cina. Anche questo paese ha fatto esperienza di dissensi interni, rivolte, attacchi stranieri, frequenti alluvioni, siccità, eccetera. Tutto ciò ha portato un’indicibile povertà alla popolazione. I movimenti rivoluzionari che sono sorti in questo secolo hanno sì procurato sofferenza, ma sono stati anche dei tentativi di liberazione sia dal dominio coloniale, sia dall’antico sistema feudale che, come una malattia, aveva colpito il cuore e la mente di diverse generazioni di cinesi.
L’eredità spirituale di questo popolo è progredita per molti secoli. Ma non si rivela né facile né auspicabile tentare di modificarne l’ethos profondo. Piuttosto, quest’ultimo dovrebbe essere diretto verso canali benefici e costruttivi se si desidera che la Cina partecipi alla costruzione di uno splendido futuro per sé, per l’Asia e per il mondo.
Quando ammiro i ritratti dello scrittore Lü Xun (Lu Hsün), che scrisse nei primi decenni di questo secolo, ho la netta percezione della chiarezza di visione con cui egli indagava nella profondità del carattere dei suoi connazionali. Egli cercava di mettere da parte qualsiasi tipo di soggettività al fine di osservare la realtà, quale che fosse. Quando ritraeva gli esseri umani, smantellava ogni pretesa o ornamento superficiale per catturare il vero aspetto degli individui. Sono un lettore appassionato dei suoi innumerevoli lavori e sono rimasto particolarmente commosso dalla conclusione del Diario di un pazzo, che tratta dei modi in cui, senza alcun ritegno, le persone si distruggono a vicenda. Lu Hsün assimila questi atti, volti alla distruzione, al cannibalismo. «Forse esistono ancora bambini che non hanno mangiato uomini? Si salvino i bambini…!» esclama il protagonista della storia. (3) La carica morale del brano trafigge il cuore del lettore.
E ancora, nella Vera storia di Ah Q in cui il Gor’kij cinese, come fu definito, dipinge i più poveri tra i contadini, è scritto: «Ma il nostro eroe [Ah Q] non era senza spina dorsale. Egli era sempre entusiasta. Ciò può essere una prova della supremazia morale della Cina sul resto del mondo». (4) Questo semplice brano è un singolare ritratto della vera natura delle persone comuni che, benché impantanate nell’ignoranza e nella povertà, riescono a farsi strada nella vita come forti arbusti. La forza e l’onestà innata dei personaggi di Lü Xun mi ricordano il giovane delinquente parigino nei Miserabili di Victor Hugo. Attraverso il suo protagonista, Hugo ritrasse un genere di incorruttibilità nata dalle idee diffuse nella Parigi del suo tempo.
Non si può affermare che il movimento letterario, di cui Lü Xun è il precursore, abbia avuto un totale successo. Tuttavia resto del parere che gli scopi, cui dedicò tutta la sua vita, sono stati portati avanti nella nuova Cina di oggi. Il romanziere Ba Jin, che ho avuto occasione di incontrare recentemente in Giappone, ha detto di aver scritto «al fine di combattere i miei nemici». In quella occasione continuò con le seguenti parole, «Quali sono i miei nemici? Sono qualsiasi concetto desueto, tradizionale, qualsiasi tipo di sistema irrazionale che impedisca il progresso sociale e l’ampliamento dello spirito umano, qualsiasi cosa distrugga l’amore». Ba Jin fu davvero impegnato, come lo stesso Lü Xun, contro chiunque o qualsiasi cosa avesse potuto nuocere alle persone.

UN NUOVO TIPO DI PERSONE

«Servite il Popolo!» e «Sii al Servizio del Popolo!» sono alcuni tra gli slogan apparsi di frequente in Cina dopo la Rivoluzione del 1949.
Un altro motto, shishi qiushi, «Cercare la verità nella realtà», ricorda la tendenza cinese a considerare l’universale alla luce del particolare. La logica, soggiacente a queste parole, sembra seguire lo stesso modello di Sima Qian alla ricerca della natura della Via del Cielo. Tutto ciò riguarda profondamente uno dei più raffinati elementi dell’eredità spirituale della Cina: la convinzione che un individuo si debba confrontare direttamente con la realtà e, su questa base, decidere come meglio ricostituirla.
Viviamo in un periodo di profondi cambiamenti e sconvolgimenti. Il premier Zhou Enlai fece notare che l’ultimo quarto di questo secolo sarebbe stato, con tutta probabilità, un periodo di grande importanza. In tempi come questi, le persone in tutto il mondo hanno bisogno di stabilire dei legami che trascendano i confini di ogni singola nazione, se non si vuole di nuovo fare esperienza degli orrori della guerra. Come affermò Joseph Needham, nell’introduzione alla sua monumentale Scienza e civiltà in Cina: «Stiamo vivendo l’alba di un nuovo universalismo che, nel caso in cui l’umanità sopravviva ai pericoli che accompagnano il controllo, da parte di uomini irresponsabili, di fonti di potere finora inimmaginabili, unirà i lavoratori di tutte le razze in una comunità cattolica e cooperativa». (5)
Sono necessarie persone nuove, una nuova immagine di individui che ricoprano un ruolo portante nello sviluppo di questo universalismo. Credo con fermezza che la Cina, con la sua lunga storia e il suo realismo, possieda un’energia senza pari, necessaria alla creazione di una nuova era.

NOTE
(1) The Analects of Confucius, trad. Arthur Waley, New York, Random House, Inc., 1989, pag. 127.
(2) Sima Qian (Ssu-ma Ch’ien, 147 a.C.-87 a.C.), primo grande storico cinese, autore dello Shiji (Shih-chi, Memorie storiche), ponderosa opera che tratta della storia cinese dagli inizi fino al 90 a.C.
(3) Selected Stories of Lü Hsun, trad. Yang Hsien-yi e Gladys Yang, San Francisco, China Books & Periodicals, Inc., 1994, pag. 18.
(4) Ibidem, pag. 127.
(5) Joseph Needham, Science and Civilization in China, Cambridge, The University Press, 1954, pag. 9.

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